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Diario di viaggio USA: Florida, Savannah, New Orleans e New York

New York vista dal mare
La Statua della Libertà e Manhattan viste dal ferry boat.

Mi piacciono gli USA. Credo che sia un posto perfetto per fare un viaggio e scoprire ogni giorno grandi metropoli e deserti silenziosi, spazi infiniti e piccole isole. Tutto e il contrario di tutto. L’anno scorso il nostro viaggio è iniziato e finito a San Francisco, sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Quest’anno, invece, ci siamo dedicati alla costa orientale: da Miami a New York, attraverso la Florida, la Georgia e una deviazione fino in Lousiana per ammirare da vicino New Orleans. Si parte!

19/09 Roma – Miami

Questo viaggio è stato organizzato in circa due mesi. Il necessario per procedere da soli: un calendario per fissare le date (ed evitare, per esempio, i weekend nelle metropoli), una guida per definire l’itinerario dei luoghi da visitare e Google Maps, per vedere in termini pratici se le distanze e i tempi di percorrenza sono accettabili.
Tutti i voli sono stati acquistati su eDreams perché ci ha dato il prezzo migliore per la nostra formula multitappa che prevede un volo interno e il ritorno da una città diversa rispetto a quella di arrivo. Nel carrello sono finiti Roma-Miami via Barcellona, New Orleans-New York via Washington e infine New York-Roma via Parigi, per un totale di 689 Euro inclusa una piccola assicurazione in caso di annullamento dei voli. Hai visto mai…
Anche gli orari dei voli sono stati scelti per arrivare il prima possibile e tornare tardi, in modo da sfruttare al massimo il tempo da trascorrere a destinazione.
Anche se ciò ci obbliga a una levataccia per arrivare in aeroporto, pazienza, dormiremo durante il volo. Come sempre raggiungiamo il parcheggio AltaQuota2 e alle 05:00 siamo in fila per fare check-in e imbarcare le nostre valigie sull’aereo delle 07:15 operato da Vueling che ci porterà fino a Barcellona, da lì proseguiremo con British Airways.
Nota sui bagagli: il biglietto British dà diritto a un bagaglio in stiva del peso massimo di 23 chili. Se alcuni voli sono operati da altre compagnie, nel nostro caso da Vueling per gli scali europei di andata e ritorno, non bisogna pagare supplementi: la compagnia ospite si adegua a quella che ha emesso il biglietto. Quindi anche Vueling imbarca le nostre valigie senza costi aggiuntivi.
I voli filano lisci, con la solita alternanza di intrattenimento-sonnolenza-rancio militare, e 15 ore dopo la partenza dall’Italia (scalo incluso) arriviamo a Miami.
Ricordo che è possibile viaggiare negli Stati Uniti senza visto ma per farlo è necessario munirsi di ESTA, un modulo disponibile online che costa 14 dollari a persona (12.50 Eu). Da notare: l’ESTA è valido 2 anni ma a condizione che il passaporto sia lo stesso! Io avevo l’ESTA dello scorso anno ma nel frattempo ho cambiato il passaporto per il viaggio in India e ho dovuto farlo da capo. E sì, si paga nuovamente: non si rinnova, non si modifica, si deve rifare e basta.
Tra pratiche per l’ingresso e ritiro bagagli impieghiamo circa 40 minuti e alle 16:30 siamo fuori l’aeroporto ad aspettare la navetta messa a disposizione dal nostro hotel. Peccato però che ci abbiano dimenticato. Difatti abbiamo atteso un’ora per un tragitto di 10 minuti!
Arriviamo al Best Western Miami International Airport Hotel & Suites e ci fermiamo giusto il tempo per lasciare i bagagli, poi torniamo di nuovo in strada. Siamo distanti dal centro e sembra complesso arrivarci con i mezzi pubblici, così mentre studiamo gli orari a una fermata del pullman si accosta una macchina con una famiglia e chiediamo informazioni sulle corse. La gentilezza e i sorrisi possono infondere subito fiducia e regalare inaspettate sorprese: ci prendono a bordo e ci danno un passaggio fino a Miami Beach! In 40 minuti di auto abbiamo riso, scherzato e ci hanno mostrato locali dove cenare e posti da evitare: abbiamo ricevuto un ottimo assaggio della famosa ospitalità del Sud.
Arrivati a Collins Avenue vaghiamo un po’ senza meta, compriamo in uno store le prime calamite e ci fermiamo a cena da Finnegan’s Way su Ocean Drive, a due passi dal mare. Ordiniamo The Finnegan, un panino con hamburger, roast beef, formaggio svizzero, insalata di cavolo, senape e patatine. E per non farlo sentire solo aggiungiamo anche Finnegan’s Chicken Strips, deliziose striscioline di pollo fritto. Totale: 29.20 dollari (26 Eu)
Siamo stanchi e sazi ma non rinunciamo a una passeggiata notturna sull’immensa spiaggia deserta. All’orizzonte c’è una spettacolare tempesta di fulmini che illumina a intermittenza il cielo eppure non un solo tuono, non una goccia di pioggia. Solo tanto caldo, tanta luce ed elettricità nell’aria che però non basta a ricaricare le nostre batterie: abbiamo bisogno di un letto, quindi rientriamo su Collins Avenue e fermiamo un taxi per farci accompagnare in hotel. La tariffa è fissa, senza tassametro, e servono 35 dollari (31.20 Eu) per tornare alla base, giusto 17 chilometri più in là.
Raggiungiamo la nostra stanza e ora sì che siamo pronti per crollare, non prima di aver messo le lancette indietro di 6 ore. Meraviglioso! Sono solo le 23:00 e abbiamo una lunga notte di riposo prima di iniziare la vera e propria avventura che ci aspetta. Domani.
Novità! Quest’anno ho portato con me uno Xiaomi Mi Band per misurare le nostre scarpinate quotidiane. Bracciale discreto, leggero, impermeabile, tarato su altezza, peso, sesso, polso, è molto preciso e a fine giornata, sincronizzato in Bluetooth con l’app su iPhone, ci mostra i chilometri percorsi.

Quanto abbiamo camminato oggi? 5,50 km 🙂

20/09 Miami – Key West (302 km)

Un po’ il fuso orario, un po’ l’adrenalina per l’inizio del viaggio on the road, alle 07:00 siamo in piedi e alle 08:30 siamo di nuovo sulla navetta che va in aeroporto.
Andiamo dritti ai banchi di Alamo per ritirare l’auto noleggiata dall’Italia, rispetto all’anno scorso quest’anno consegneremo la macchina in un posto diverso dal ritiro. Tecnicamente si chiama drop-off e comporta un sovrapprezzo che varia in base alla distanza, a noi viene a costare 300 dollari (267.50 Eu) ma rispetto all’itinerario che intendiamo percorrere ci va più che bene.
Abbiamo prenotato una macchina di categoria fullsize (bagagliaio capiente) con una formula all inclusive: navigatore GPS, secondo guidatore, pieno e chilometraggio illimitato. Ci abbiamo aggiunto anche un’assicurazione di copertura totale (sostituzione immediata del veicolo in caso di perdita delle chiavi, rottura cristalli, foratura, batteria scarica, ecc…) per un totale di 695 Euro.
Dopo aver firmato le scartoffie scendiamo nel garage e ci indicano un settore con una ventina di macchine parcheggiate: “Scegliete voi quella che preferite”. Ahia, qui rischiamo di far notte… c’è anche una tamarrissima Camaro 😉
Alla fine optiamo per un criterio intelligente: chiedo quali modelli avevano il cruise control e di questi i relativi consumi. Già così la scelta si riduce molto, poi ho pensato a un’altra caratteristica fondamentale: prendiamola senza chiavi. Apertura/chiusura sulla maniglia dello sportello e pulsante Start per l’accensione, così il telecomando di prossimità resta sempre in borsa e per tutto il viaggio hai una cosa in meno da ricordare, di solito una cosa che si perde facilmente: le chiavi 🙂
Il feeling scatta con una Nissan Altima nera nuova di zecca, solo 3000 chilometri.
Dall’aeroporto ci spostiamo verso Miami Beach per vedere il lungomare e la spiaggia di giorno, ci fermiamo di nuovo nei pressi di Finnegan’s e scendiamo verso il mare per il primo scatto della nostra nuova gallery Facebook pubblicata mano-a-mano.
L’acqua è calda, verde, invitante. Ci piacerebbe restare ma abbiamo altro da fare in programma, quindi riprendiamo l’auto e ci dirigiamo a Wynwood per visitare questo quartiere periferico che sta conoscendo un grande sviluppo e un’efficace riqualificazione grazie all’arte muraria. Wynwood Walls è uno spazio libero e aperto, con murales e dipinti esposti, oltre a un ricco calendario di appuntamenti. Si possono ammirare opere notevoli e comprendere in via definitiva che l’arte sui muri è cosa possibile, ma rara.
Dopo questi giri rientriamo in albergo per riprendere le valigie e partire, difatti grazie al check-out ritardato per i possessori di carta Diamond possiamo lasciare la stanza alle 13:00.
Ci rinfreschiamo rapidamente con acqua aromatica alle fragole e al cetriolo, facciamo uno spuntino al volo da Burger King con un’insalata di pollo e Nuggets a 11 dollari (9.80 Eu) e siamo pronti per attraversare tutte le Florida Keys lungo la spettacolare Overseas Higway, fino alla nostra destinazione finale: Key West, il punto più a sud degli Stati Uniti.
Passiamo in rassegna Key Largo, Islamorada e Marathon, facciamo qualche sosta per comprare acqua, snack e fare qualche fotografia alle tantissime iguane che si scaldano nelle aiuole che costeggiano la strada. Gli scorci che abbiamo davanti sono meravigliosi e la tabella di marcia è perfetta, arriveremo giusto in tempo per il tramonto.
Dopo circa 4 ore di marcia arriviamo al Lighthouse Court Hotel, scelto proprio per la sua posizione ottimale: siamo nel cuore della città vecchia, di fianco al faro storico e il nostro dirimpettaio è Hemingway che qui a Key West ha vissuto 9 anni e sicuramente avrà dato ampio sfogo alla sua passione per la pesca.
Sembra il nostro giorno fortunato: troviamo parcheggio di fronte all’ingresso e ci offrono un upgrade gratuito della stanza. L’hotel è davvero bello, tutto in legno dipinto con i colori pastello tipici dell’isola e tanta vegetazione tropicale che circonda la piscina.
Lasciamo le valigie e siamo subito sulla vicinissima Duvall Street, la strada principale dove ci sono i migliori negozi e locali della città. Li facciamo sfilare tutti fino a Mallory Square, la piazza sul mare dove tutti si danno appuntamento per assistere al tramonto. Un tramonto è un tramonto, si direbbe che sono tutti belli ma… qui è più bello! Il sole si tuffa nel blu del mare in uno scoppio di colori: giallo, arancione, rosso, fino al viola delle nuvole che contrasta con il verde brillante della vegetazione. Quando il sole scompare all’orizzonte il pubblico esplode in un applauso rituale, come se avesse assistito a uno spettacolo di fuochi pirotecnici.
Ci gustiamo due grandi Margarita frozen (20 dollari, 17.80 Eu) mentre guardiamo l’esibizione di un artista di strada e poi passeggiamo lungo il porticciolo storico alla ricerca di un buon ristorante. Diamo un’occhiata ai menù esposti e alla fine la scelta ricade su Conch Republic Seafood. A quanto pare la nostra giornata fortunata continua, infatti mentre siamo in attesa per entrare si libera proprio un tavolino esterno per due e quindi ci troviamo seduti ai margini della palafitta, giusto a un paio di metri dalle barche da pesca ormeggiate lungo il pontile.
Il tempo di studiare il menù e siamo pronti: conch fritters, tipiche frittelle di conch servite con mostarda al lime; gamberi locali affumicati con peperoni rossi grigliati e salsa di pomodoro cubano, serviti con riso e verdure fresche. Per dessert la tradizionale torta Key lime fatta in casa, una cheescake con crema di lampone e lime. Una cena davvero ottima, per un totale di 46.20 dollari (41.20 Eu).
Sulla strada del ritorno ripercorriamo Duvall Street che con il buio rivela il suo lato più trasgressivo: alcool a fiumi, musica ad alto volume e intrattenimento in stile Coyote hugly per tutti i gusti. Diamo una sbirciata in giro, scattiamo qualche foto con pappagalli sulle spalle e ci fermiamo a comprare calamite, t-shirt e shottini: i nostri primi souvenir per gli amici.
Prima di andare a dormire ci rilassiamo qualche minuto in piscina per godere un po’ di frescura: gran caldo a Key West, per tutto il giorno la temperatura è stata di circa 30 gradi!
La prima giornata on the road si chiude, domani tocca alle Everglades. E non solo!

Quanto abbiamo camminato oggi? 9,4 km

21/09 Key West – Everglades – St Petersburg (703 km)

Apriamo gli occhi alle 07:00, ci aspetta la tappa più lunga dell’intero viaggio e prima di partire facciamo il pieno energetico grazie alla colazione servita in un buffet a bordo piscina: cornetti salati e bagel speziati con semi di papavero, finocchietto e sesamo, muffin ai frutti di bosco, succo di arancia e yogurt con muesli croccante. Prepariamo anche uno spuntino al sacco per il pranzo e dopo il check out salutiamo le ragazze della reception, siamo stati molto bene in questo hotel e ci resterà un bellissimo ricordo di Key West.
Prima di lasciare l’isola facciamo tappa al Southernmost Point Marker, un’enorme pietra miliare che segna il punto più a sud degli Stati Uniti a sole 90 miglia da Cuba.
Dopo le foto di rito puntiamo dritti verso l’Everglades che attraverseremo lungo il Tamiami Trail (Hgwy 41), una strada che taglia in due il parco. La nostra tabella di marcia ha ritmi serrati ma non possiamo rinunciare un’escursione su una airboat che scivola sulle acque della palude.
Evitiamo accuratamente le prime attrazioni turistiche pubblicizzate con enormi cartelloni propongono zoo e lotta con gli alligatori, cioè, perché uno dovrebbe andare a vedere il wrestling con i coccodrilli?
Noi scegliamo di affidarci alle escursioni gestite dalla tribù nativa Miccosukee situata nei pressi della Shark Valley. Ci fermiamo, compriamo il biglietto (20 dollari, 17.80 Eu), infiliamo i tappi nelle orecchie e iniziamo a scivolare sull’acqua piatta e ferma. L’imbarcazione si spinge nella palude e lo scenario diventa sempre più selvaggio: le nuvole e il cielo si specchiano nell’acqua creando un effetto di continuità indescrivibile mentre gli aironi spiccano il volo improvvisamente dalle fronde di alberi semisommersi.
Facciamo sosta in un campo antico della tribù, risalente ad oltre 100 anni fa: una grande palafitta di legno con una passatoia tutto intorno per inoltrarsi a piedi nell’habitat della palude. Qui abbiamo visto un alligatore con i suoi piccoli e soprattutto abbiamo sentito il suo impressionante respiro, difatti era sotto la superficie dell’acqua e sarebbe rimasto invisibile se non fosse emerso per respirare.
Prima di ripartire la nostra guida – l’indimenticabile Manny Mosquito – ci ha fatto un lungo sermone intriso di misticismo, orgoglio tribale e cristianesimo spiegando il significato della bandiera della tribù e l’importanza del rispetto della natura, del ciclo vitale e dell’amore per il prossimo. Alla fine del discorso un alligatore è spuntato fuori a mezzo metro da noi, con tempismo perfetto per salutare Manny e i suoi discepoli.
La seconda parte del giro è stata più movimentata con qualche testacoda e tante derapate in velocità. Dopo un’ora rientriamo al molo, salutiamo e ci rimettiamo in macchina diretti a San Petersburg: fuori ci sono 37 gradi e abbiamo altre 222 miglia da percorrere. La strada attraversa ancora chilometri di Everglades e poi lascia spazio a campi coltivati e vivai, tantissimi vivai. Tra le cose curiose viste durante il tragitto ricordiamo i violenti acquazzoni improvvisi con altrettanto improvvisi arcobaleni e i segnali stradali che invitavano alla cautela perché ci trovavamo in una zona di attraversamento… pantere! 🙂
Alle 20:00 arriviamo al The Inn On Third nel centro storico di St. Petersburg e anche qui accoglienza meravigliosa in un ambiente molto famigliare, sembra una casa inglese degli anni ’50.
Ci diamo una rinfrescata e torniamo in macchina: alle 21:00 abbiamo una cena a Tampa, a 20 chilometri da noi ci aspettano i Di Nittos, una coppia di amici trasferiti qui per lavoro. Ci siamo visti solo il mese scorso in Italia ma abbiamo da raccontarci tantissime cose: il nostro viaggio appena iniziato e il loro ambientamento in USA. Così tra un bicchiere di vino rigorosamente italiano e un fiume di parole, passiamo una serata che ricorderemo volentieri durante tutto l’anno che ci separa dal prossimo incontro. I bambini si addormentano e noi siamo altrettanto sfiniti: troviamo la forza per congedarci dagli amici e affrontare gli ultimi 20 minuti di macchina di una giornata lunga 700 chilometri.
Domani ci aspetta una giornata più rilassante, ce la meritiamo.

Quanto abbiamo camminato oggi? 3,6 km

22/09 St. Petersburg – Orlando (218 km)

La giornata inizia all’insegna dell’arte.
Proprio così, perché St. Petersburg ospita un museo interamente dedicato alle opere di Salvador Dalì: proprio qui si trova la più grande collezione al mondo, penisola iberica esclusa, delle opere del maestro spagnolo.
Facciamo colazione con muffin ai mirtilli, cinnamon roll, nastrine con marmellata, succo d’arancia, yogurt e toast con confettura. Al momento del check-out troviamo tra i depliant turistici dei buoni sconto di 2 dollari (1.80 Eu) per i biglietti del museo.
Siamo solo a un chilometro e mezzo dalla destinazione e all’ingresso c’è la possibilità di parcheggiare a pagamento per 10 dollari (9 Eu) oppure si può lasciare la macchina negli stalli pubblici con il parcometro (un dollaro/h per un massimo di tre ore).
Il biglietto costa 24 dollari ma con lo sconto appena rimediato ne paghiamo 22 (19.50 Eu), il prezzo include l’audioguida e l’accesso alla mostra speciale che ospita il museo. Durante la nostra visita abbiamo avuto la fortuna di trovare in esposizione le opere di M.C. Escher (fino al 3 gennaio 2016), un abbinamento perfetto tra due dei nostri artisti preferiti.
Il museo è bellissimo, le opere sono esposte cronologicamente e tutto è sapientemente equilibrato: le luci, gli spazi vuoti, le ampie vetrate che danno sul mare e gli angoli più riparati che invitano alla contemplazione. Le opere, su tele grandi e piccole, partono dagli esordi e arrivano fino all’esplosione dei concetti surrealisti che hanno reso celebre nel mondo il genio di Figueres. Oltre ai dipinti, sono molto interessanti anche le fotografie che ritraggono Dalì nelle sue pose eccentriche o in spaccati di vita quotidiana con Gala, sua compagna e musa ispiratrice.
Dopo una scorpacciata di colori e visioni passiamo al bianco e nero di Escher, ai suoi tratti precisi e ai risultati pregevoli ottenuti nel corso di una vita dedicata alla ricerca continua, allo studio dei riflessi sferici e all’espansione della dimensionalità nello spazio. Quindi scale perpetue, salite e discese che non si distinguono, acque che fluiscono in circoli apparentemente possibili ma contronatura, effetti ottici, metamorfosi e relatività dei punti di vista: sublime. Sublime anche il giftshop, dove compriamo spillette di Dalì prima di andar via dopo due ore e mezza di visita.
Siamo ancora in estasi quando usciamo, facciamo una sosta nel giardino antistante e scattiamo le foto alla struttura del museo, anch’essa opera d’arte architettonica con curve morbide di vetro e acciaio che si intersecano armoniosamente con la pietra viva da cui sgorga l’acqua di una cascata come a riprodurre una sorgente.
Andiamo via con gli occhi pieni di bellezza e riprendiamo la nostra strada che ci porta dritti al Best Western Plus Universal Inn di Orlando. Durante il check-in faccio una massiccia raccolta di brochure da leggere dopo un tuffo rinfrescante in piscina. Dopo un paio d’ore di relax riprendiamo la macchina per andare al Disney Downtown che abbiamo raggiunto con una breve passeggiata dopo aver parcheggiato gratis vicino al Cirque du Soleil.
Facciamo un giro entrando e uscendo da negozi e locali, i più interessanti sono stati il T-Rex Cafe a tema preistoria con un grande acquario nella zona ristorante, dinosauri robotizzati e la kidzone dove lasciare bambini a giocare come provetti archeologi con sabbia, pennelli e fossili recuperare. Poi lo store Disney dove è Natale tutto l’anno e infine la spettacolare eruzione del vulcano del Rainforest Cafe che ci ricorda lo spettacolo visto l’anno scorso al Mirage di Las Vegas. Scattiamo qualche foto sul Lake Buena Vista illuminato da tutte le attrazioni che vi si affacciano e torniamo alla macchina per spostarci al City Walk degli Universal.
Da notare! In pratica Orlando si divide in due grandi aree: Disney Resort, che include hotel e parchi a tema della Disney e Universal Resort con hotel e parchi della casa di produzioni cinematografiche. Entrambe le aree hanno un centro per fare shopping, divertirsi, mangiare quando i parchi sono chiusi: rispettivamente Downtown Disney e City Walk.
Parcheggiamo al costo di 5 dollari (4.50 Eu), tariffa valida dalle 18:00 in poi (la tariffa giornaliera è di 17 dollari, 15 Eu), e ci dirigiamo verso la Concierge. Come avevamo visto dall’Italia, con 24 dollari (21.30 Eu) acquistiamo il pacchetto cena+minigolf 18 buche, uno dei più belli di Orlando. Ci consegnano l’elenco dei ristoranti convenzionati con questa promozione e scegliamo Jimmy Buffett’s Margaritaville dove ordiniamo Cheesburger in paradise, un hamburger ricoperto di american cheese, insalata, pomodoro, sottaceti e salsa Paradise Island. Ci aggiungiamo un enorme petto di pollo alla griglia con riso speziato alle verdure e mais arrosto.
Dopo questa cena che ci ha fatto recuperare le forze siamo pronti per la grande sfida di minigolf, scegliamo il percorso 18 buche a tema horror e casa stregata (l’altro percorso è sui film di fantascienza anni ’50), così tra ostacoli, giochi di luce e tranelli trascorriamo un’ora di relax prima di rientrare in albergo dove ci aspetta la nostra maxi stanza con maxi letti.

Quanto abbiamo camminato oggi? 6,5 km

23/09 Orlando – Universal Studios

Dopo i primi giorni di spostamenti, oggi ci concediamo una pausa divertente e dedichiamo la giornata a un parco a tema: gli Universal Studios.
Prima questione: i biglietti. Ci sono tantissime formule disponibili sul sito ufficiale, per esempio il biglietto per più giorni o quello per più parchi. Noi abbiamo scelto la formula un solo parco in un giorno, anche perché poi abbiamo avuto conferma che farne due nella stessa giornata è più o meno impossibile. Abbiamo scelto gli Studios perché siamo appassionati di cinema e perché nell’altro parco, Island of Adventure, la rollercoaster di Hulk risultava chiusa per manutenzione e anche l’orario di apertura dava meno ore a disposizione. Per questo consiglio di consultare bene il sito prima di scegliere dove andare, anche perché il biglietto costa 102 dollari (90 Eu) e vale la pena ottimizzare la spesa 😉
Da notare! In entrambi i parchi c’è un’area dedicata ad Harry Potter. Le due zone sono collegate da uno spettacolare treno-attrazione a cui si può accedere soltanto se si ha il biglietto valido per entrambi i parchi.
Lasciamo l’hotel con la navetta delle 10:00 e ci prenotiamo per il rientro delle 20:00. Il parco chiude alle 19:00 (gli orari variano in base al periodo dell’anno) e siamo riusciti a fare tutte le attrazioni al pelo, compreso un bis su Hollywood Rip Ride Rockit: una botta di adrenalina pura.
Tanto per dare un’idea delle attrazioni migliori: da non perdere Harry Potter e Transformers: The Ride 3D, indipendentemente che siate o meno fan di questi colossal. Se amate le montagne russe e la musica non perdete Rockit. Cadute verticali, giri della morte e una caratteristica molto particolare: ogni sedile può scegliere la colonna sonora della sua corsa tra rock metal, elettronica, country, pop, hip hop. Divertente anche Revenge of the Mummy e sbalorditive le attrazioni dei Simpson, Minions e Shrek 4D. Delusione totale per Twister che suggerisco di saltare a pie’ pari, è davvero brutta ed è meglio risparmiare tempo. Poi, un po’ datate e quindi meno entusiasmanti, sono MIB e ET che in confronto alle altre fanno quasi tenerezza.
Un paio di note sulle file e sugli zaini: ogni attrazione all’ingresso comunica una stima dei tempi di attesa, la nostra più lunga è stata di 50 minuti dai Minions ma in generale siamo stati su una media accettabile intorno ai 25/30 minuti. Le file non sono mai noiose perché scorrono abbastanza veloci in ambienti ricreativi e multimediali che ti introducono all’attrazione vera e propria. Si può acquistare anche un pass salta-file, basta aggiungere 49.90 dollari (44.40 Eu) al prezzo del biglietto. Per quanto riguarda gli zaini, invece, ci sono alcune attrazioni in cui non è possibile portarli con sé: nessun timore, sono disponibili degli armadietti per lasciare borse, telefoni e altri oggetti. Sono gratuiti per un tempo compatibile con l’attesa prevista dall’attrazione e si aprono e chiudono con l’identificazione dell’impronta digitale: nessuna combinazione, nessuna chiave, nessuna spesa.
Ci sono anche tanti show dal vivo, noi abbiamo dato un’occhiata alla parata pomeridiana, all’esibizione dei Blues Brothers e a uno spettacolo con gli animali addestrati più famosi del cinema e della televisione (niente di memorabile).
Decidiamo di perdere la navetta delle 20:00 e restiamo a fare un giro nel City Walk dopo aver prenotato un tavolo da Cowfish, dove ci comunicano un’attesa di 30/40 minuti prima di inviarci un sms per avvisarci che il tavolo è pronto. Da buoni appassionati di hamburger e sushi, avevamo visto questo locale dall’Italia e non potevamo perdere l’occasione di provare il Burgushi, una fusione estrema di sapori.
Quando è il nostro turno ordiniamo The Big Squeal (hamburger di manzo, carne tritata di maiale, formaggio gouda affumicato, cipolletta fritta, bacon, salsa barbecue, lattuga, sottaceti) e il tanto atteso burgushi Fusion Specialty Bento Box (una portata “combo” con mini cheeseburger accompagnato da patate dolci fritte, cetrioli thailandesi e 4 Boss Roll: tonno pinna gialla con cetriolo fritto in tempura e ricoperto con avocado, tonno rosso, wasabi e mayo).
Il panino era molto buono, il burgushi una delusione. Il prezzo: 39.81 dollari (35.40 Eu).
Anche per questa destinazione abbiamo scelto bene l’hotel, perché ci ha permesso di essere indipendenti dalle navette di collegamento ai parchi, difatti per rientrare ci è bastata una piacevole passeggiata di 20 minuti lungo il curatissimo percorso pedonale dei parchi.
Sulla strada del ritorno facciamo un bilancio della giornata e, soprattutto, iniziamo a ragionare sul percorso che ci aspetta domani: si riprende la marcia, si va in Georgia.

Quanto abbiamo camminato oggi? 13,7 km

24/09 Orlando – St Augustine – Savannah (472 km)

Oggi non abbiamo fretta. Abbiamo preparato con calma la nostra partenza con destinazione finale Savannah, in Georgia. Prima di partire ci fermiamo a saccheggiare Walgreens, un supermarket aperto 24 ore che si trova proprio accanto all’hotel.
Una spesaccia americana non può mancare, bisogna entrare in questi store anche solo per vedere cosa è possibile trovare… Noi abbiamo comprato souvenir, dolci, t-shirt, aspirine, bicchieri, penne, lavagnette e fatto rifornimento di acqua e snack per i prossimi giorni.
La nostra prima tappa è St Augustine, una località balneare che vanta anche il più antico insediamento abitato degli Stati Uniti.
Prima visitiamo la spiaggia, una lunghissima distesa di sabbia finissima. C’è un gran vento e assistiamo in diretta al programma in corso di ricostruzione delle dune. Tutto è spiegato con cartelli chiarissimi: ci sono installazioni in legno e limiti da non varcare perché stanno ripristinando l’habitat naturale della costa, il vento e la sabbia stanno lavorando benissimo in sinergia. Molte costruzioni sul litorale sono abbandonate e la natura sta lentamente riconquistando i suoi spazi. Sembra un’operazione di recupero sull’abusivismo selvaggio. Del tipo: “Ok, abbiamo sbagliato ma ora stiamo rimediando”. Vi ricorda niente? 😉
Con un dollaro si può accedere al lungo pontile da cui si potrebbero avvistare squali, balene e altre specie che però non vediamo perché il mare è davvero agitatissimo.
Al termine della sosta ci spostiamo verso il centro storico risalente al 1565, dove c’è il Castillo de San Marcos finito di costruire dagli spagnoli nel 1695. Noi optiamo per un giro nel pittoresco quartiere coloniale, molto caratteristico.
Facciamo una passeggiata per sgranchire le gambe, scattare qualche foto e comprare un po’ di souvenir. St Augustine ci sembra un bel posto dove stare a vivere negli USA, ha caratteristiche che ci risultano famigliari: piccola città, graziosa, con una storia, il mare e belle spiagge.
Alle 17:15 riprendiamo la macchina per dirigerci verso Savannah, dove arriviamo dopo 3 ore con una sorpresa: la temperatura esterna è di soli 19 gradi e il nostro abbigliamento da spiaggia è completamente sbagliato! 🙂
Il nostro check-in all’Oglethorpe Inn & Suites (agg. 08/2017: ora l’hotel è un Comfort Inn e i lavori di adeguamento alla catena alberghiera gli hanno fatto perdere molto del suo charme esterno, gli interni per fortuna sono rimasti uguali) è piuttosto pittoresco e non esattamente in linea con l’eleganza e lo stile dell’hotel. Siamo quasi imbarazzati di fronte alla bellezza dell’hotel, dico “quasi” perché in realtà non ce ne importa molto 😉
Però è davvero tutto molto bello e l’indomani, con la luce, risulterà anche meglio. E poi la stanza era grande come un appartamento!
Indossiamo abiti più adatti e siamo di nuovo in strada per una passeggiata verso Fiddlers Crab House (CHIUSO, agg. 01/20). Locale molto bello, grande, tutto in legno, con una cascata esterna che cade dal tetto e fa molta atmosfera anche all’interno. Lo staff è gentile e disponibile, anche se è tardi per i loro orari di cena ci fanno sedere e ci spiegano un po’ di cose sulle birre locali. Alla fine ordiniamo una scura Savannah Brown e la chiara Tybee Blond. Poi il piatto forte di Fiddler: gamberi e patatine, ovviamente tutto fritto, con l’immancabile insalata di cavolo e le salse della casa. Tanto per non interrompere la dieta proteica a base di carne, ci affianchiamo anche due belle bistecche di maiale arrosto con purè e verdure al vapore. Spesa totale: 42.78 dollari (38 Eu).
Giornata lunga, fatta di nuovi colori, profumi e sapori. Arrivederci Florida!

Quanto abbiamo camminato oggi? 6,15 km

25/09 Savannah

Come mai ci ritroviamo proprio a Savannah?
Non c’è una spiegazione esatta, è quel genere di città che ti chiama e prima o poi vai a visitare. Città storica, città magica, città elegante: l’ho sempre immaginata così. Un luogo cruciale durante la guerra civile americana, con le sue abitazioni in stile coloniale, le colonne bianche, le querce con il muschio spagnolo…
Poi un giorno ho letto Ascoltavo le maree del giornalista Guido Mattioni, libro ambientato proprio a Savannah, e ho deciso: voglio andare a vederla. E così, eccoci qua.
Cominciamo il nostro giro dalla Piantagione Wormsloe. Solo l’arrivo all’ingresso vale il viaggio: un viale lungo due chilometri con querce secolari che intrecciano i rami fitti e piegati a formare un arco verde che quasi sembra un lungo tunnel.
L’ingresso costa 10 dollari (8.85 Eu) e consente l’accesso in auto fino al museo, dove si può ripercorrere tutta la storia della piantagione nelle varie epoche che si sono succedute dalla fondazione avvenuta nel 1736 fino ai giorni nostri.
La visita scorre veloce, siamo praticamente i soli ospiti, e dopo aver scattato qualche selfie travestiti da coloni passiamo al Pine Trail, un sentiero di 1,5 chilometri che si addentra nella foresta fino a un insediamento coloniale ricostruito con capanne e un fabbro all’opera. Compriamo tre dadi da gioco ancora caldi e ci spostiamo verso il belvedere, affacciato su una palude molto estesa. Ci sdraiamo a prendere il sole e ci rilassiamo con i suoni della natura: il vento, le foglie, lo scoppiettio secco e improvviso delle bolle d’aria sull’acqua, segnali chiari della vita invisibile che brulica sotto di noi.
Riprendiamo il cammino e arriviamo alle rovine della colonia, dove notiamo i muri molto spessi fatti con una malta impastata con gusci di ostriche e, dopo aver visto la tomba monumentale dei fondatori, rientriamo verso il celebre viale delle querce viventi. Davanti a questo scenario incantevole esprimiamo il desiderio di vedere un cervo e guarda un po’ – mentre siamo in macchina diretti verso l’uscita – proprio mentre percorriamo la spettacolare galleria di rami intrecciati con il muschio spagnolo, un imponente cervo si ferma sul ciglio della strada e poi scatta veloce per attraversarla e sparire nel bosco. Una di quelle scene da imprimere nella testa, è stato un attimo e nessuna macchina fotografica sarebbe stata più veloce dei nostri occhi.
Ci dirigiamo verso il centro di Savannah, passando per il vasto Forsyth Park che ha una gigantesca fontana che ricorda quella di Place de la Concorde, a Parigi. Lasciamo la macchina a Madison Square (1.50 dollari/h, a pagamento fino alla 17:00) e poi iniziamo un giro in centro.
L’impressione è subito ottima e appaga pienamente le aspettative riposte: c’è tantissimo verde, molte piazze ben curate e tante abitazioni eleganti.
Facciamo uno spuntino da Panera Bread con uno smoothies banana, more selvatiche e vaniglia, una limonata biologica e un sandwich con arrosto di tacchino + BLT (18 dollari, 16 Eu).
All’uscita andiamo verso Chippewa Square: anche se le panchine erano un artificio cinematografico, è questa la piazza in cui Forrest Gump racconta la sua storia alle persone in attesa del bus. Prima di arrivare, però, ci imbattiamo in un cordone di polizia che circonda tutto l’isolato: nastri gialli a delimitare la scena del crimine come nei film e tantissime pattuglie di poliziotti in stato di allarme. Ci sono anche cineoperatori che fanno interviste e collegamenti, è successo tutto a pochi metri da noi, mentre mangiavamo: un conflitto a fuoco, come apprenderemo dal notiziario locale visto a cena.
Puntiamo dritti verso la parte bassa della città, sulle rive del fiume Savannah, per fare il nostro sacrosanto shopping lungo River Street dove troviamo El Galeon, un magnifico galeone ormeggiato vicino una storica imbarcazione con ruota a pale e tanti negozi interessanti. Veniamo attratti dal profumo di mou, caramelle e cioccolata che arriva dal laboratorio artigianale di River Street Sweets, così entriamo per assaggiare le noci pecan glassate e comprare le World Famous Southern Pralines, un dolcetto tipico che solo a nominarlo aumenta il tasso glicemico.
Per tornare indietro passiamo dal cimitero storico: ormai è buio e anche qui l’atmosfera è da film, abbiamo la luna piena che illumina le lapidi e crea dei giochi di ombre inquietanti. Sono circa le 20:00 quando un custode ci viene incontro per avvisarci che sta per chiudere e forse non è il caso di restare 😉
Prima di arrivare alla macchina cerchiamo la Owens-Thomas House, un’elegante villa del 1819 dotata di acqua corrente già 20 anni prima della Casa Bianca, e poi andiamo alla ricerca di Jones Street, la strada più bella di Savannah. Qui troviamo case a schiera, in legno, ognuna con la sua verandina con il dondolo e il marciapiede antistante la porta d’ingresso decorato con piante in vaso. Lungo il viale ci sono le famose querce con il muschio pendente e sulla strada non c’è asfalto ma l’antico acciottolato rosso. In Jones Street Savannah supera ogni aspettativa e si mostra in tutto il suo splendore.
L’abbiamo vista sotto il sole e al buio ed è sempre stata bella, sembra costruita all’interno di un bosco secolare: non ci ha deluso, era proprio una città da vedere!
Dopo una lunga giornata di giri ci avviamo verso l’hotel, decisi a cenare di nuovo da Fiddler’s perché ieri abbiamo mangiato molto bene, siamo stanchi, è tardi e non abbiamo voglia di cercare un altro locale. In città iniziano a vedersi i tour per i ghostbuster, difatti Savannah è la città più infestata d’America, e il business dei giri turistici è molto – diciamo così – “vivo”. Ovviamente le escursioni avvengono a bordo di… carri funebri! Noi non sappiamo se i fortunati assisteranno a qualche apparizione, l’unica cosa certa che vediamo è la nostra fame nera.
Per il nostro bis ci diamo dentro con Bud light e Southbound Hoplin Ipa, hushpuppies (frittelle di farina di mais) e Captain Tubby’s Burger: 220 grammi di filetto con formaggio e bacon servito con le immancabili patatine fritte. Per finire ci abbiamo aggiunto il mitico sandwich del sud: panino con crab cake, un tortino di polpa di granchio, servito con salsa remoulade piccante. Conto: 37.42 dollari (33.10 Eu).
Rientriamo in hotel soddisfatti, da notare: tutti i giri in auto di questa giornata, quindi dal nostro hotel alla piantagione e da questa al centro città e poi di nuovo in hotel, ammontano a un totale di 32 km. Il consiglio, quindi, per chi arriva a Savannah in auto è prendere un hotel fuori dal centro perché sarà probabilmente più grande, più bello e più economico.

Quanto abbiamo camminato oggi? 10 km

26/09 Savannah – Panama Beach – Destin (631 km)

Dopo un’abbondante colazione in quella che resterà la hall più bella e luminosa degli hotel visti in questo viaggio, alle 10 partiamo per tornare in Florida.
La nostra prima tappa sarà Panama Beach, distante circa 550 km, e ci arriveremo non attraverso il percorso più veloce ma il più breve. Vuol dire che attraverseremo un angolo di Georgia non turistico ma non meno importante, seguendo una parte dell’Historic Liberty Trail un tratto di strada patrimonio nazionale perché protagonista di episodi-chiave della Rivoluzione, della guerra civile e del movimento per l’emancipazione e la difesa dei diritti della minoranza nera.
Viaggiamo spediti su una striscia d’asfalto strappata al verde brillante dei boschi che si alternano ai campi di cotone e passiamo in rassegna piccoli centri abitati isolati, pacifici, con case di legno e giardini curatissimi. Lungo la nostra Hgwy 84 sfilano Ludowici, Jesup, Waycross, Manor, Homerville, Valdosta, Thomasville, la palude Okefenokee fino a Tallahassee, la capitale della Florida. Da qui prendiamo la I-10 che ci porta sull’Emerald Coast, la Costa Smeralda americana che affaccia sul Golfo del Messico. Grazie al cambio di fuso rimettiamo l’orologio indietro e guadagniamo un’ora da spendere lungo la panoramica 30A fino a Panama City Beach, dove arriviamo in tempo per un tuffo e una birretta davanti a un tramonto spettacolare.
Ci separano ancora 70 chilometri da Destin, dove arriviamo intorno alle 20 dopo quasi 10 ore di guida. La stanza del nostro White Sands Inn & Suites (agg. 01/20: diventato Best Western Sugar Sands Inn & Suites) è un vero e proprio premio: una suite con due grandi ambienti separati, entrambi con letti king size, divani, scrivanie e un grande bagno. La nostra camera affaccia su un’invitante Jacuzzi ma l’idea di rilassarci davanti a una buona cena vince su tutto, quindi usciamo subito per raggiungere il vicino Longhorn scelto su Tripadvisor: locale molto bello, accogliente, ben arredato e anche qui camerieri di una gentilezza imbarazzante come li abbiamo trovati praticamente ovunque. Ordiniamo una sirloin da 3 etti con caesar salad, purè di patate e torta di zucca, carota e cannella. Non potevamo stare senza il nostro panino quotidiano e così abbiamo aggiunto Rocky Top Chicken, un sandwich con pollo, bacon, salsa bbq, formaggio svizzero e cheddar. Tutto per una spesa di 37 dollari (32.70 Eu).
Un’altra giornata è finita, domani sarà l’ultimo giorno on the road: è arrivato il momento di lasciare la nostra amata Nissan Altima, da noi ribattezzata Tartufella 🙂

Quanto abbiamo camminato oggi? 3,5 km

27/09 Destin – New Orleans (448 km)

Oggi andiamo a realizzare un altro sogno: New Orleans.
Prima di arrivare in Lousiana, però, dobbiamo lasciarci alle spalle Florida, Alabama e Mississippi.
Su Internet, anche grazie all’uso di Street View, abbiamo scoperto un percorso alternativo lungo la 30A che seguiamo fino alla svolta per Navarre Beach.
Le immagini non mentivano: abbiamo fatto un’ottima scelta. La strada è lenta e poco frequentata ma ha grandi panorami sul mare e passaggi in mezzo a enormi dune di sabbia bianca e finissima. Dopo Navarre proseguiamo ancora per miglia lungo Santa Rosa Island, quindi seguiamo tutta la scenic drive del Gulf National Seashore fino a Pensacola.
Che dire: se passate da queste parti e viaggiate esclusivamente su Interstate e Highway, vi perderete davvero il meglio!
Dopo aver varcato il confine con l’Alabama l’unica cosa che ci ferma è un acquazzone spaventoso che riduce a zero la visibilità e ci costringe a un’uscita di emergenza nei pressi di Mobile, così ne approfittiamo per fare una pausa e prendere qualche snack per affrontare la seconda metà del viaggio. L’acquazzone, però, non accenna a diminuire, anzi aumenta di intensità e nonostante ciò il traffico resta ordinato.
Superiamo il Mississippi e finalmente entriamo in Lousiana, ha quasi smesso di piovere ma decidiamo di mettere in atto il piano pensato durante il viaggio: fermarci direttamente all’hotel per scaricare la macchina, fare check-in e dopo andare in aeroporto per la riconsegna dell’auto.
Siamo finalmente a New Orleans e ci bastano pochi minuti all’hotel St. Marie, nel cuore del French Quarter e a soli 50 metri da Bourbon Street per capire che sarà un soggiorno elettrizzante. La camera è gigantesca, c’è una bella piscina e il temporale ha finalmente lasciato posto a un timido sole. Anche qui fa caldo, siamo intorno ai 28 gradi quando torniamo in strada per andare in aeroporto. Prima, però, ci fermiamo per l’ultimo rifornimento del viaggio.
Nota sui consumi: in America la benzina costa poco, molto poco. Per questo conviene fare questo tipo di viaggi. Ci sono buone macchine, buone strade, tanti distributori e i noleggi sono accessibili. Noi abbiamo percorso un totale di 2774 chilometri e abbiamo speso 88.65 dollari (77.50 Eu). Con questa cifra abbiamo fatto due pieni e mezzo, in pratica con quasi 80 Euro abbiamo comprato 164 litri di benzina a prezzi variabili che tradotto in soldoni vuol dire in media 47 centesimi al litro. Per rendere l’idea, fare lo stesso percorso in Italia sarebbe costato circa 260 Euro!
Dopo i saluti a Tartufella scegliamo di non perdere tempo a capire come funzionano i trasporti pubblici durante un giorno festivo, così ci dirigiamo dritti verso la rimessa dei taxi e per 36 dollari (31.80 Eu) ci facciamo portare in Rampart Street, di fronte al parco dedicato a Louis Armstrong. Proprio qui c’è il bar Tonique consigliato sulla Lonely, famoso per i suoi cocktail, in particolare per il Sazerac, storica miscela alcolica che risale al 1830 ed è considerato il cocktail simbolo della Lousiana (5 cl cognac, 1 cl assenzio, 1 zolletta di zucchero, 2 dash di bitter Peychaud). Gli affianchiamo un buon Mai Tai e usciamo con lo spirito giusto per il battesimo di Bourbon Street che percorriamo dall’inizio alla fine. Tutta la strada alterna locali di ogni genere e negozi di souvenir, niente altro, e basta passeggiare per capire di quanto sia folle questa strada. Personaggi eccentrici, drag queen, ubriachi, polizia, tutti che si mescolano sui marciapiedi e sui famosi balconi in ferro battuto noti per il lancio delle collanine durante il martedì grasso.
L’atmosfera di festa cresce con il passare delle ore ma il nostro stomaco reclama attenzione, quindi andiamo nella bellissima sala del Desire Oyster Bar che fa angolo tra Bienville e Bourbon Street. Ordiniamo alligatore fritto e il trio creolo: gombo, jambalaya, riso e fagioli con salsiccia affumicata. Una delizia dai sapori decisi, per una spesa di 38 dollari (33.60 Eu). Prima di rientrare in hotel ci fermiamo al Musical Legends Park per ascoltare un po’ di jazz live, siamo a NOLA!

Quanto abbiamo camminato oggi? 5,8 km

28/09 New Orleans

Usciamo affamati come lupi perché siamo senza colazione e ci mettiamo alla ricerca di un posticino interessante. Con la luce del giorno vediamo l’altra faccia di Bourbon Street: è completamente diversa, c’è un altro tipo di fermento con i rifornimenti in corso, le grandi pulizie, tutto si muove rapidamente per prepararsi ad affrontare un’altra lunga notte.
Durante il cammino ci fermiamo a vedere un concerto improvvisato dalla Second Hand Street Band in Royal Street e procediamo fino ad arrivare in Jackson Square, una bella piazza su cui affaccia la cattedrale di San Louis.
Dopo una rapida visita degli interni attraversiamo la strada per raggiungere la riva del Mississippi, facciamo una pausa su un pontile e poi riprendiamo a camminare lungo il riverwalk fino al casinò Harrah’s. Qui siamo fuori dal French Quarter, siamo passati nel distretto finanziario e sembra di stare in un’altra città: grattacieli e grandi viali che non restano impressi, però si compra meglio e quindi ne approfittiamo per fare qualche acquisto.
Troviamo una wi-fi pubblica e ne approfittiamo per cercare un bel posticino per mangiare qualcosa, così finiamo da Jimmy J’s Cafe al 115 di Chartres Street. Ci sono solo 9 tavoli e qui non vengono turisti ma gente del posto, è un po’ nascosto ma vale la pena cercarlo. Ordiniamo un bagel, ciambella salata ricoperta di sesamo e semi di papavero, ripiena di salmone affumicato, Philadelphia, pomodori, cipolle rosse e capperi, servito con patate al forno. Per bilanciare i sapori lo abbiamo accompagnato con un bel french toast imburrato e aromatizzato alla cannella, servito con strisce di bacon e marmellata ai frutti di bosco. Da bere limonata fatta in casa e milkshake banana e fragola. Non era propriamente una colazione, ma ne è valsa la pena (30 dollari, 26.50 Eu).
Dopo il ristoro riprendiamo la nostra escursione in città e ci rituffiamo nel quartiere francese. Una via da non perdere è Royal Street, per me la più elegante e con le migliori balconate decorate che riparano le tantissime gallerie d’arte al livello della strada.
Vediamo anche l’imponente facciata della Corte Suprema della Louisiana del 1909, usata per le riprese di JFK di Oliver Stone. Giriamo in St Peter Street e la percorriamo fino al civico 632 dove c’è la Avart-Peretti House, la casa in cui visse Tennessee Williams quando scrisse Un tram che si chiama desiderio.
Continuiamo a seguire l’itinerario pedonale consigliato dalla Lonely e ovviamente lo facciamo a modo nostro (cioè al contrario), su alcune cose consigliate siamo d’accordo su altre no. Per esempio viene tagliata fuori per pochi metri Esplanade Avenue che è stata una delle strade più belle e vere che abbiamo percorso. Ai limiti del French Quarter e quindi con una credibilità maggiore in termini di vita reale, rispetto al circuito turistico.
Dopo quasi 8 ore in strada torniamo in hotel e ci prepariamo per la cena, la scelta ricade sul vicino Pierre Maspero’s, uno storico locale che propone cucina creola, francese e americana. Quale posto migliore per fondere tutte e tre? Il nostro ordine ne è la conferma: birra Nola Brown Ale e Crawfish Etouffée, dove Etouffée è il tipo di cottura lenta e Crawfish è un’aragostina, in pratica una zuppa di mare condita con spezie creole, cipolle, peperoni e sedano servita con riso in bianco e code di aragostina fritte. E non poteva mancare il test dell’hamburger: per la precisione il Maspero’s Burger, panino con 220 grammi di manzo e cheddar cheese. Tutto buono con una spesa di 46.10 dollari (40.60 Eu).
Di ritorno in hotel percorriamo ancora una volta Bourbon Street e facciamo un primo bilancio: New Orleans è da vedere, è un posto davvero singolare. Due giorni possono bastare, Bourbon Street è sicuramente la più caratteristica e famosa strada del French Quarter ma non la più bella. Si ubriacano (e non solo) in modo esagerato, tanto da perdere il controllo, c’è tanta confusione e la città ha molto di meglio da offrire rispetto a questo spettacolo. In due giorni non abbiamo mai visto bambini in giro, potete immaginare il perché…
La passeggiata lungo il Mississippi non è niente di memorabile, nonostante il riverwalk il panorama d’insieme è bruttino e il tanto pubblicizzato giro sul battello a pale non ha avuto la nostra attenzione: in pratica dura 2 ore, naviga un’ora lungo il fiume torbido e poi torna indietro. Non ci sono scorci o località particolari che vengono rivelate a chi è a bordo. Alla nostra richiesta specifica su cosa avremmo visto grazie a questa gita, nessuno ci ha dato risposte convincenti.
Quindi, se passate da New Orleans, sappiate che le vostre gambe vi faranno vedere cose più belle. A patto di muoverle, però! A proposito…

Quanto abbiamo camminato oggi? 9,45 km

29/09 New Orleans – New York

Ancora valigie pronte per un nuovo spostamento. Alle 09:00 viene a prenderci Yves con cui avevamo già preso accordi il giorno del nostro arrivo. Il volo è puntuale e ci confermano che i 36 minuti a nostra disposizione per lo scalo saranno sufficienti per prendere il volo successivo. Proprio così: a Washington dobbiamo cambiare aereo e tutto risulterà facile come prendere una metro. Scendiamo dall’aereo al gate 39, saliamo su un altro aereo al gate 41 e dopo un’ora atterriamo puntuali a New York, all’aeroporto La Guardia.
Da qui i collegamenti con Manhattan avvengono solo tramite bus e noi prendiamo lo shuttle NYCAirporter che con 14 dollari (12.30 Eu) ci lascia a Penn Station. Da qui è possibile prendere la metro per la propria destinazione ma a noi non serve, perché siamo a due isolati dal nostro Best Western Premier Herald Square e lo raggiungiamo facilmente a piedi.
Al check-in il receptionist si congratula per la prenotazione fatta con i punti della carta fedeltà, perché in quei giorni (era in città Obama per la riunione dell’UN) la loro tariffa era quotata 835 dollari! Ho dato fondo a tutti i punti ma ne è valsa la pena: la stanza è al 13 piano e di fronte a noi vediamo l’Empire State Building, siamo nel cuore di Manhattan e muoversi sarà più pratico avendo a disposizione 4 giorni per vedere il meglio della Grande Mela.
Noi iniziamo subito da Times Square che percorriamo in lungo e in largo storditi dalle luci e dai giganteschi schermi pubblicitari. È finita l’epoca dei cartelloni e dei neon!
Dopo le foto di rito e un calorico giro nello store M&M’S World continuiamo fino alla sagoma storica del Flatiron Building. Da qui ritorniamo lungo la 5a fino a 5 Boro Burger dove ci fermiamo per la nostra prima cena newyorkese: immancabile Bacon Cheeseburger con patatine e Pastrami sandwich. Niente di memorabile se non per il primo cameriere antipatico e scortese incontrato. Pazienza, NYC ci riserverà sicuramente di meglio nei prossimi giorni!

Quanto abbiamo camminato oggi? 8,1 km

30/09 New York

Finalmente torniamo a iniziare la giornata con una grande colazione: pancake, frittelle salate, muffin, succo d’arancia e via, subito sulla 5a diretti al MoMA e lungo la strada incontriamo l’edificio della Public Library, la biblioteca di NYC, la St. Patrick’s Cathedral e il Rockfeller Center.
Dopo le foto di rito a questi simboli cittadini, arriviamo al museo (apre alle 10:30 e chiude alle 17:30), il biglietto costa 25 dollari (22 Eu) e dopo aver ritirato la mappa in italiano saliamo al quinto piano per iniziare la visita con gli artisti più noti del museo.
Ascoltiamo l’audioguida che abbiamo scaricato dall’Italia, proprio così: hanno un’app fantastica che spiega le opere maggiori, anche con una versione per bambini. È gratuita, da non perdere!
Cosa si vede al MoMA? Il meglio dell’arte moderna e contemporanea: Van Gogh, Dalì, Chagall, Klimt, De Chirico, Picasso, Magritte, Kahlo tutti i nostri futuristi da Severini a Boccioni (avete presente la scultura sui 20 cents di Euro?), Fontana, Abramovich, Gauguin e tanti altri grandissimi. Visitiamo tutte le sale in ogni piano e ci soffermiamo sui grandi della pop art: Warhol, Haring e Lichtenstein.
Sazi di colori e forme, dopo 3 ore di visita usciamo per prendere la nostra prima metro a New York. Il biglietto per una corsa costa 3 dollari (2.60 Euro), ci sono formule cumulative (Metrocard) ma non abbiamo approfondito perché abbiamo programmato di prenderla saltuariamente per passare più in tempo in superficie che sottoterra 😉
Da notare! Più che le destinazioni finali, come siamo abituati a fare in Europa, per orientarsi bene sul percorso di una linea newyorkese a Manhattan, ricordate che l’isola viene divisa in una parte superiore e una inferiore. Perciò troverete le indicazioni per gli stessi treni diretti a Downtown e Uptown: prendete quello giusto 😉
La nostra corsa finisce a Battery Park, splendido giardino pubblico dove c’è l’imbarco per la Statua della Libertà. Il biglietto costa 18 dollari (15.80 Eu) e include l’audioguida che viene consegnata sul posto dopo lo sbarco. Partiamo con il ferry boat delle 15:40, in pratica il penultimo perché partono ogni 20 minuti fino alle 16. La traversata dura circa 15 minuti e l’ultimo ritorno è fissato alle 18 ma è meglio controllare gli orari sul sito perché possono essere variabili in base alle stagioni.
Con l’audioguida, abbastanza noiosa, seguiamo il percorso circolare dell’isola e ammiriamo da tutte le angolazioni l’imponente struttura di una delle statue più famose del mondo. Progettata da Frédéric Auguste Bartholdi, con l’intervento successivo di Eiffel, è un capolavoro d’ingegneria artistica. La statua appare imponente e massiccia, i tratti del volto e le pieghe della tunica drappeggiata fanno pensare immediatamente a una scultura in marmo, enorme. Ma non è così: la statua è composta da una scheletro in ferro rivestito con 310 lastre di rame sottili come monete da due penny. In pratica è cava e leggera, per questo subisce danni in caso di fulmini e tempeste.
Alle 17:30 siamo di nuovo a Manahattan per iniziare un percorso di nostra invenzione: iniziamo con il Charging Bull, il famoso toro di bronzo opera del nostro Arturo Di Modica che simboleggia la forza dell’America e ha una storia che merita di essere letta.
Entriamo nel cuore del distretto finanziario per vedere Wall Street, la borsa di New York cuore del potere economico americano e poi ci dirigiamo verso il memoriale dell’11 settembre.
Io ho avuto la fortuna di vedere le Torri Gemelle nel 1998 e conserverò sempre quel ricordo, a cui aggiungerò anche le sensazioni della visita a Ground Zero. Al posto delle Torri ora ci sono due enormi vasche quadrate con le pareti di marmo nero, sulle pareti scorre l’acqua che si accumula nella base fino a ricadere in un altro quadrato nero posto al centro dell’installazione. Di questo quadrato non si vede il fondo da nessuna prospettiva, si sente solo l’acqua cadere. Sul parapetto che circonda il perimetro delle vasche sono incisi i nomi delle vittime di quel giorno tremendo. Sullo sfondo si erge il nuovo grattacielo nato dalle macerie, come a simboleggiare la capacità americana di risollevarsi più forti di prima.
Il luogo, a pochi anni dalla sua inaugurazione, ha già assunto chiari connotati spirituali: è un luogo della memoria dove ci si comporta con rispetto e deferenza. Non si gioca, non si fa gli stupidi, non si urla, non si pascola… si può solo contemplare, ricordare e riflettere. Possibilmente in silenzio.
Da qui ripartiamo verso City Hall e il parco del municipio, e successivamente proseguiamo seguendo le indicazioni per il percorso pedonale che porta al ponte di Brooklyn, che percorriamo fino alla sua metà: un luogo perfetto per scattare foto suggestive allo skyline di New York sfolgorante di luci. Rientriamo in metro verso la zona del nostro hotel ma scendiamo a Grand Central Terminal, altro luogo mitico di questa città: una stazione secolare, imponente, in stile liberty, spesso fotografata e ripresa in tantissimi film (Carlito’s Way, Intrigo Internazionale e Gli Intoccabili su tutti). Ci sediamo sulle scale ad ammirare la volta celeste dipinta sul soffitto e nel mentre navighiamo in wi-fi per scegliere dove cenare. Stasera tocca a Blarney Rock Pub, un pub irlandese molto frequentato ma con una zona tranquilla per cenare. Prendiamo posto e abbiamo subito le idee chiare: seppure in versione Irish ordiniamo il nostro classico bacon cheeseburger a cui aggiungiamo un panino con punta di petto arrosto (40 dollari, 35 Eu).
Lunga giornata oggi e domani ne arriva un’altra altrettanto piena, non ci resta che rientrare in hotel e riposare.

Quanto abbiamo camminato oggi? 15,8 km

01/10 New York

Siamo agli sgoccioli, la nostra macchina organizzativa ha ormai raggiunto livelli militari. Siamo praticamente sincronizzati, siamo viaggiatori che si avviano sulla strada del ritorno ma ci restano alcune cose che non vogliamo perderci. Prendiamo la metro di Herald Square e dalla 34a saliamo fino all’81a per raggiungere il Museo di Storia Naturale, avete presente il film Una notte al museo? Ecco, è proprio “quel” museo.
Il biglietto di ingresso è praticamente a offerta, loro suggeriscono quella di 22 dollari (19.40 Eu) a persona ma ognuno è libero di donare quanto vuole. Il cassiere mi spiega le condizioni mentre ha in mano la mia carta di credito e alla fine mi addebita 20 dollari per due (17.60 Eu), io non avrei saputo fare di meglio 😉
Il museo è fantastico, famoso per il padiglione dedicato ai dinosauri, ha tantissime sale da scoprire anche grazie all’app ufficiale che ti permette di fare percorsi programmati e che tramite il GPS ti colloca sulla mappa virtuale così non ti perdi mai e organizzi al meglio la visita. Noi giriamo in lungo e largo tra animali impagliati, minerali, ritrovamenti fossili, scheletri e habitat riprodotti. Dopo una passeggiata nel padiglione dedicato allo spazio, usciamo per visitare l’altra grande attrazione cittadina: basta attraversare la strada per ritrovarsi nel cuore di Central Park.
Il parco è gigantesco, basta percorrere per qualche minuto un sentiero per avvertire la temperatura più bassa e il silenzio. Il rumore del traffico che circonda tutto il parco diventa impercettibile, sembra di essere davvero in un altro luogo che non ha nulla a che fare con la metropoli. Fotografiamo gli scorci migliori dei laghi e degli stagni che si alternano ai prati curatissimi, tutto intorno scoiattoli, pesci, tartarughe. Quando arriviamo al margine meridionale del parco, all’altezza della 59a, inizia a piovere e siamo costretti a sfoggiare i nostri magnifici k-way. Sarà con questi che ci presentiamo all’interno della chiesa di Saint Thomas sulla Fifth: c’è il concerto del coro in corso e ne approfittiamo per fermarci ad ascoltare.
L’aura mistica che ci pervade ispira la tappa successiva: una cheesecake noci e caramello da Magnolia, la pasticceria resa famosa dalla serie televisiva The Sex and the City, celebrità che si riflette anche nel prezzo del buonissimo dolcetto monoporzione: 7.50 dollari! (6.60 Eu).
Dopo la pausa iniziamo il nostro shopping newyorkese: t-shirt, mug, infradito, magneti, non ci sfugge niente. Mentre ci era sfuggito The Keg Room, un locale bellissimo a pochi metri dal nostro hotel, con 30 maxi schermi che trasmettono gli sport più amati in USA (baseball, basket e football americano). L’inizio e la fine: i migliori panini li abbiamo mangiati a Miami il primo giorno e proprio qui al termine del viaggio, un congedo migliore non potevamo sperarlo! Ordiniamo Crispy chicken slider: straccetti di pollo con bacon affumicato, cheddar cheese con patatine; e Smockehouse Burger, con cheddar cheese, 220 gr di Black Angus , salsa bbq e bacon affumicato, con le immancabili patatine. Conto: 30 dollari (26.50 Eu).
Siamo quasi pronti alla partenza, dobbiamo mettere a punto ancora alcuni acquisti, assicurarci il trasferimento verso l’aeroporto di Newark e soprattutto fare le valigia. Ma prima…

Quanto abbiamo camminato oggi? 12,2 km

02/10 New York – Roma

Prima di partire dobbiamo vedere ancora Chinatown e Little Italy quindi al mattino, nonostante la pioggia, usciamo presto per raggiungere in metro questi due quartieri confinanti.
C’è da dire che ormai Chinatown è più grande e caratteristica di Little Italy ma in generale, entrambi, non hanno più il fascino di una volta…
Facciamo una serie di acquisti inutili rendendoci conto che nei giorni scorsi, seppur in pieno centro, abbiamo trovato dei buoni prezzi. Quindi se non volete spingervi fin qui o non avete il tempo per farlo, anche intorno a Time Square troverete prezzi simili. Gli oggetti, invece, sono praticamente identici ovunque. Per avere un riferimento medio sui prezzi che si trovano nei negozi di souvenir, considerate buone le promozioni 5×10 dollari sulle T-shirt, 4×10 sulle calamite e 3×10 per le classiche tazze I Love NY.
Dopo le ultime spese rientriamo in hotel perché ancora una volta, grazie al check-out ritardato previsto per i clienti Diamond, possiamo lasciare la stanza alle 13:30. Recuperiamo le nostre valigie, salutiamo e accettiamo l’omaggio di un paio di poncho antipioggia che usiamo per coprire i bagagli.
Il nostro volo parte da Newark e, dopo aver raccolto informazioni su internet, abbiamo deciso di arrivarci con il treno perché gli shuttle potevano subire ritardi a causa del traffico dovuto al maltempo.
Come arrivare all’aeroporto Newark da Manhattan? Facile. Bisogna raggiungere Penn Station sulla 34a, cercare le indicazioni per New Jersey Terminal (NJT) e acquistare alla cassa il biglietto per l’aeroporto al costo di 13 dollari (11.50 Eu). I treni partono ogni 15 minuti e impiegano meno di 30 per arrivare a destinazione. Bisogna scendere alla stazione Air Terminal e da qui prendere la monorotaia (inclusa nel prezzo del biglietto) che porterà al terminal previsto per l’imbarco del proprio volo (di solito i voli internazionali sono tutti al terminal B).
Abbiamo calcolato tutto per arrivare in tempo e ci siamo dati un margine di un’ora per imprevisti e ritardi. Il margine non è stato intaccato. Durante le procedure d’imbarco dei bagagli notiamo che le nostre valigie sono ingrassate di 6 chili, più o meno quanto noi a furia di mangiare hamburger e schifezze varie. A proposito di schifezze, quest’anno sul podio degli snack insoliti sgranocchiati in macchina mettiamo: al terzo posto le patatine ai sottaceti, al secondo le Pringles al Cheeseburger e quelle Baked Potato, al primo posto quelle alle costatine di maiale bbq. Ok, siamo davvero alla fine. Dopo 15 giorni da trottole è arrivato il momento del ritorno in Italia.
Gli Stati Uniti si confermano un luogo ideale per una vacanza on the road, tutta organizzata da soli e dall’Italia, senza particolari disagi, in sicurezza e con una spesa accettabile per noleggio dell’auto, benzina, caselli (in tutto il viaggio ne abbiamo incontrato uno solo, che è costato 1 Euro) e alberghi.
Come da nostra buona abitudine durante il viaggio di ritorno facciamo bilanci e classifiche: la cosa più bella, l’episodio più divertente, la cena migliore… ma soprattutto ragioniamo già sulle destinazioni successive.
Dove si va al prossimo giro? Costarica? Giappone? Olanda? Non lo sappiamo ancora, ci pensiamo un po’ e poi sarà il viaggio a scegliere noi.
Di sicuro abbiamo prenotato Bratislava a Dicembre, poi si vedrà… 😉

Ma alla fine, quanto abbiamo camminato? 115 chilometri! 🙂

Note
Tutti gli hotel sono stati prenotati su Booking (escluso quello di NYC)
Libro letto su Kindle: La marcia di E.L. Doctorow
Guide di riferimento: Stati Uniti orientali della serie Lonely Planet
Come sempre spero che questo diario possa stimolare e aiutare altri viaggiatori, sono a disposizione in caso di domande.

Diario di viaggio in India: Varanasi, Agra, Jaipur e Delhi

India. Agra. Il Taj Mahal.
Agra. Il Taj Mahal.

Di nuovo India. A distanza di 11 anni volevo vedere con occhi diversi luoghi diversi del subcontinente, nel 2004 andai a Mumbai e Calcutta e tornai piuttosto scosso: fu un impatto devastante che condizionò la mia opinione sull’India. C’è voluto del tempo e tanti altri viaggi per pensare a un ritorno, poi l’entusiasmo della mia compagna (non solo di viaggio) e un film, The Fall, mi hanno dato l’ispirazione definitiva: era arrivato il momento di tornare 🙂

25/03 Roma – Dubai – Delhi

Prima di partire, ci vuole una rapida premessa sui documenti di viaggio.
Per andare in India serve il visto e bisognava seguire una procedura abbastanza complessa, più o meno scoraggiante come quella per ottenere il visto russo. Pazienza, senza visto non si parte quindi bisogna organizzarsi e decidere se affidarsi a un’agenzia o fare da soli. Io non avevo intenzione di inviare i passaporti in agenzia tramite poste, quindi ho scelto di fare tutto da solo online e di persona.
Per fortuna rispetto a questo viaggio le cose sono cambiate, di seguito elenco i passaggi che ho dovuto fare nel 2014 e – dopo le righe barrate – ci sono le istruzioni aggiornate per chiedere il visto per l’India online.

Per chiedere il visto per l’India erano necessari alcuni passaggi:
1) Studiare i requisiti per richiedere il visto;
2) Compilare il form online (potete farlo aiutandovi con questa demo che traduce in italiano i vari campi);
3) Consegnare in ambasciata a Roma i documenti (oppure consolato indiano per Milano) collezionati, rispettando giorni e orari indicati sul sito;
4) Ritirare il visto.

Qualche altra nota: sul sito abbiamo trovato diverse incongruenze (per esempio sulla necessità di presentare anche un documento che attesti la capacità economica necessaria per la permanenza in quel Paese, come una busta paga) ma telefonando in ambasciata non abbiamo risolto granché perché quando siamo riusciti a parlare con qualcuno, raramente, ci siamo accorti che sulla procedura da seguire ne sapevano meno di noi. A scanso di equivoci ho portato con me a Roma anche una busta paga che poi non è servita.
Il costo del visto turistico per l’India è di 53 Euro a persona, questa cifra cambia se la richiesta è per affari oppure studi. Anche l’attribuzione della durata è a discrezione dell’ambasciata: a noi hanno concesso un visto multiplo di sei mesi e uno a ingresso singolo per tre mesi. Quanto tempo ci vuole per il visto? Un solo giorno. Ho consegnato i documenti e mi hanno dato un appuntamento per ritirarli il giorno successivo, della serie: ci vuole più tempo a dirlo che a farlo 😉

AGG. Gennaio 2020: Tutti questi passaggi non sono più necessari!
Dal 2014 l’India ha introdotto il visto elettronico, come l’ESTA per andare negli USA.
Ora non bisogna fare la lunga trafila di prima, basta visitare il sito di un’agenzia specializzata, avviare la pratica online e in 48 ore è pronto: facile, veloce, pratico e anche più economico.

Bene, informazioni di servizio finite. Ora partiamo davvero!
Il volo A/R per Delhi l’ho acquistato sul portale viaggi di American Express – che dopo abbondanti confronti si conferma ancora una volta il migliore i voli intercontinentali – ed è costato 400 Euro a persona, con Emirates.
Ci avviamo verso l’aeroporto alle 06:00, c’è una gran pioggia e un gran traffico, tanto che nonostante l’ampio margine calcolato arriviamo al solito parcheggio giusto in tempo per l’imbarco.
Ci ha aiutato moltissimo aver fatto il check-in online che permette a chi deve imbarcare i bagagli di presentarsi al banco fino a 90 minuti prima del volo, altrimenti sono richieste tre ore di anticipo e non ce l’avremmo fatta. Abbiamo giusto qualche minuto per cambiare un po’ di Euro in rupie, poco, giusto il necessario per arrivare sul posto con moneta locale e fronteggiare le prime spese (54 Euro = 3000 rupie), il resto lo ritireremo presso gli ATM.
Sul volo niente da dire, tutto fila liscio e alle 11:00 decolliamo diretti a Dubai. Su Emirates riscontriamo spazi più larghi del solito, un ottimo servizio di bordo e anche il pranzo – accompagnato da un menù per ogni poltrona – sembra più gustoso del solito rancio offerto dalle compagnie aeree. L’intrattenimento è di livello con tv, giochi e per la prima volta due telecamere che riprendono gli esterni dal muso dell’aereo e dal carrello: due visuali esclusive per i passeggeri, particolarmente suggestiva quella dal muso durante le manovre di atterraggio e decollo.
Il volo dura 5 ore e a Dubai abbiamo due ore e mezzo di attesa per goderci un po’ l’avveniristico aeroporto, che poi non è niente di così eccezionale, prima di imbarcarci sul secondo aereo diretto a Delhi. Altre 3 ore di volo passano veloci con una buona lettura, un paio di partite di minigolf e la cena.
Dopo aver spostato le lancette avanti di tre ore, una volta atterrati in India ci aggiungiamo un’altra ora e mezza. Proprio così: il fuso rispetto all’Italia è di 4,5 ore, è la prima volta che mi capita!
Una volta sbarcati la prima cosa che facciamo è metterci in coda per consegnare un foglio compilato in aereo dove dichiariamo di non avere i sintomi dell’ebola. Almeno per il momento… 😉
Il secondo stop è per il controllo di visti e passaporti e poi ritiriamo i bagagli, arrivati puntuali senza patemi.
Sono le 04:00 del mattino e il nostro programma si conferma ben ragionato: abbiamo deciso di non fermarci ora a Delhi, la vedremo di ritorno, ma di proseguire subito per Varanasi.
Subito per modo dire perché il volo JetAirways (86.60 Eu) decolla alle 10:30 e prima di poter imbarcare nuovamente i bagagli dobbiamo riempire 4 ore di attesa in aeroporto. Cerchiamo delle poltroncine comode e concludiamo così la nostra prima notte in India, in fondo “domani” è già “oggi” 😉

26/03 Delhi – Varanasi – Sarnath

L’attesa è veloce e siamo ancora carichi di adrenalina, non sentiamo alcuna fatica del primo giorno di viaggio e siamo curiosi di raggiungere Varanasi, la nostra prima tappa.
Il volo da Delhi impiega solo 45 minuti e una volta atterrati andiamo dritti spediti verso il box dei taxi prepagati, che applicano tariffe fisse governative e rilasciano regolare ricevuta. Così non dovrete iniziare a conoscere l’India con estenuanti trattative per arrivare in hotel.
Spendiamo 700 rupie (10.25 Eu) e ci infiliamo in una macchina d’epoca sferragliante e senza aria condizionata. Anche le cinture di sicurezza sono un optional.
Abbiamo un’ora di marcia per superare il primo impatto con il traffico indiano che per noi risulterà decisamente convulso e poco salubre. La circolazione di auto, moto, biciclette, animali e persone non è descrivibile, si può soltanto immaginare. Nel caos generale in cui siamo immersi tutto sembra funzionare perfettamente: nessuno si arrabbia per ciò che fa l’altro né lo interpreta come una prepotenza, anche l’entropia ha un suo ordine paradossale e qui sembra compiersi definitivamente.
Ci muoviamo tra strombazzamenti continui, completamente avvolti in un meccanismo che non comprendiamo ma che non si inceppa e ci porta a destinazione.
La stanza dell’hotel Buddha si rivela modesta ma tanto non ci trascorreremo molto tempo, non siamo neppure arrivati che subito torniamo in strada e fermiamo un risciò di passaggio per la nostra prima escursione. Occidentali in giro non se ne vedono e nel giro di pochissimo siamo letteralmente circondati da cinque altri guidatori con la bocca piena di paan, una poltiglia che masticano di continuo e che produce un colore rossastro su denti e gengive: sembra una scena di The Walking Dead. Ah! Ovviamente ogni tanto sputano la miscela con degli scaracchi impressionanti per consistenza e colorazione, quindi tenete gli occhi aperti quando caricano…
Siamo diretti a Sarnath, un luogo sacro del buddhismo, e dopo 40 minuti di marcia e 300 rupie (4.40 Eu) spese senza contrattare, arriviamo al Parco dei Cervi.
Qui il Buddha ha messo in moto la ruota del Dharma, proprio qui ha pronunciato il primo sermone a cinque discepoli. Entriamo nel tempio Mulganda Kuti Vihar proprio nell’orario (tra le 17:00 e le 18:00) in cui, ogni giorno, viene scandito il primo sermone pronunciato dal Buddha.
Dopo aver assistito alle orazioni dei monaci insieme a pochissime altre persone ci spostiamo all’esterno per ammirare il gigantesco baniano che deriva dall’albero originario di Bodhgaya, sotto il quale il Buddha giunse all’illuminazione.
Il parco circostante (ingresso 20 rupie, 0.30 Eu) è immerso nel verde e oltre ai cervi si trovano diversi animali. Qui accade una cosa particolare che poi si confermerà almeno altre 50 volte durante il viaggio: veniamo fermati da una famiglia indiana in gita che ci chiede con estrema cortesia e pudore di poter scattare una foto insieme. Il capo-famiglia ci stava per immortalare con moglie e figlie quando una guardia del parco si è avvicinato e si è offerto per scattare la foto, così anche il papà si è aggiunto al quadretto con i due strani occidentali. Questo episodio ci ha ricordato quanto accadde in Cambogia, quando ci invitarono a un matrimonio locale e per qualche minuto siamo stati gli ospiti d’onore della festa, con tanto di fotografie insieme agli sposi. Loro vestiti come star di Bollywood e noi in costume e infradito, di ritorno da una giornata di mare! 🙂
Poi ci dirigiamo verso il Dhamek Stupa, che troviamo chiuso, ma prima ci fermiamo presso il tempio giainista Digambara (10 rupie, 0.15 Eu) dove ascoltiamo un fedele che descrive le caratteristiche principali del giainismo e le differenze con il buddhismo. Ci mostra moltissime istantanee del suo maestro, anche insieme a Sonia Ghandi e al Dalai Lama, foto in cui appare sempre integralmente nudo. Proprio così, perché il giainismo Digambara prevede la completa nudità, addirittura alcuni spazzano la strada su cui camminano per evitare di uccidere qualsiasi essere vivente. Digambara vuol dire “vestiti d’aria” e sono una fronda estrema del giainismo, gli fanno da contraltare gli Svetambara, “vestiti di bianco”, che sono meno conservatori e più in linea con i tempi attuali.
Facciamo alcune domande sulla svastica, simbolo mistico molto presente nella cultura indiana, e finiamo per ascoltare delle spiegazioni affascinanti sul simbolismo religioso che accomuna varie fedi. Per esempio ci indica una curva che simboleggia un’onda contenuta nel simbolo dell’Om, confrontandola con la mezza luna islamica, con i mudra induisti e altri simboli comuni adottati da diverse dottrine religiose. Pensiamo quindi alle nostre mani che, unite una affianco all’altra, riproducono con i palmi proprio quella curva in ogni foto della nostra gallery di viaggio, una singolare coincidenza. O no? 😉
Dopo altri 40 minuti di buche e polvere continuiamo ad osservare affascinati questo traffico che di notte sembra ancora più caotico, circondato dalla vita: sono tantissime le persone che sul ciglio della strada cucinano, mangiano, bevono, dormono e sì, fanno anche i propri bisogni. C’è tanta sporcizia e miseria intorno a noi, impossibile far finta di niente e menarla con la dignità, la fierezza degli sguardi e i vestiti sgargianti e bellissimi. Purtroppo la decadenza è dominante e la puzza delle strade vince sui flebili profumi di fiori e incenso che si affacciano timidamente da qualche tempio.
Il nostro autista ci saluta e ci presenta un suo collega con cui ci mettiamo d’accordo per l’indomani, per arrivare all’Assi Gath in riva al Gange.
La richiesta stavolta è di 150 rupie (2.20 Eu), adesso una piccola e veloce parentesi sulla trattativa: potete trattare praticamente su tutto ma quando un uomo ti chiede due Euro per seguirti mezza giornata e dedicarti intere ore con il suo automezzo sembra quasi offensivo giocare al ribasso, piuttosto pensate a come rimpinguare il compenso con una buona mancia. Altro che trattare al ribasso…
Dopo un’intera giornata di foschia trascorsa con 38 gradi costanti, la temperatura si comincia lentamente ad abbassare fino ai 31 gradi delle 21:30. Sarà più o meno così per tutto il viaggio, non moriremo sicuramente di freddo 😉
Facciamo una doccia veloce e proviamo il ristorante del nostro hotel, dove ordiniamo roti (chapatti), un pane indiano non lievitato e naan al formaggio. Poi riso con semi di cumino, riso kashmiri (con anacardi, uvetta, arancia, formaggio di capra e spezie) e uova sode in salsa Masala. Dopo aver pagato lo stratosferico conto di 852 rupie (12.50 Eu) rientriamo in camera, finalmente ci aspetta un letto dove dormire davvero. Crolliamo rapidamente in un sonno profondo: ci penseranno i clacson e i richiami alla preghiera della vicina moschea a svegliarci domani 😉

27/03 Varanasi

La giornata comincia con un’abbondante colazione: succhi tropicali, toast imburrati con marmellata gusto Big Babol e patate al forno insieme a frittelle di cavolfiori e patate. Per finire anche un po’ di crema pasticciera.
Alle 10:30 siamo in strada dove già ci aspetta il nuovo amico con cui ci eravamo accordati ieri. Il nostro programma prevede di farci lasciare ad Assi Ghat, da lì risaliremo il Gange costeggiando tutti i ghat più importanti fino a quello di Manikarnika.
Piccola parentesi sugli autisti dei tuk tuk (o motorisciò): a parte il prezzo sempre gonfiato (ma ripeto, per noi sostenibilissimo), provano spesso a portarti nei negozi di amici da cui ricevono delle provvigioni in caso di vendite. A volte sono fastidiosi perché ti costringono a deviazioni o soste forzate ma basta essere fermi nel rifiuto per evitare di perdere tempo.
Varanasi è una città sacra dell’induismo, forse la più spirituale d’India. Qui c’è il fiume-dio Gange e i suoi 80 ghat, le scalinate lungo le sponde che scendono fino all’acqua: è su queste scale che ogni giorno si celebra la fusione tra uomo, natura e divinità. Qui si compiono i riti del ciclo vitale dalla nascita alla morte, qui si prega e qui si muore. E per gli induisti morire a Varanasi è una benedizione perché significa essere liberati dal ciclo delle reincarnazioni.
Partiamo da Assi Ghat e passiamo in rassegna Tulsi, Bachrah, Shivala, Dandi e Hanuman Ghat dove non mancano le scimmie (Hanuman è una divinità dalle sembianze umane e di scimmia).
Il sole picchia forte, ci sono già 37 gradi alle 11:00 del mattino e la nostra passeggiata è appena iniziata. Intorno a noi molte persone fanno le abluzioni rituali nell’acqua, pregano, si lavano e si immergono insieme ai loro animali.
Arriviamo quindi ad Harishchandra Ghat e ci fermiamo per una sosta decisamente insolita.
Questo ghat è un crematorio all’aperto, quindi assistiamo alla composizione di una pira funeraria con un uomo avvolto in un sudario che, dopo essere stato immerso nel Gange, viene dato alle fiamme.
Le sensazioni sono molto personali, non c’è una descrizione universale e comprensibile per tutti. Bisogna vedere, se si decide di farlo. Oppure non andare, in base alla propria sensibilità.
Di sicuro bisognerebbe evitare di scattare foto (a meno che non siate dei professionisti), prima di tutto perché non è propriamente un’attrazione turistica da immortalare e poi perché rischiereste di essere avvicinati da persone che chiedono soldi per “autorizzare” l’uso della macchina fotografica. A noi ci hanno avvicinato semplicemente per il fatto di averla al collo. Si avvicinano anche precisando che non sono delle guide ma vogliono spiegarti come funzionano le cremazioni. Alcuni chiedono soldi e altri no, noi ascoltiamo un ragazzo che ci spiega che il costo di una cremazione tradizionale è di 5000 rupie (73 Eu), mentre farlo in un forno crematorio elettrico costa la metà. Non tutti sono ammessi a questa forma di rito di passaggio, per esempio i bambini sotto i cinque anni, le donne incinta, i sadhu e le persone morse da un cobra non possono essere arse ma devono essere immerse nel fiume con dei pesi. Sarà poi il Gange a restituire quel che resta del corpo. A noi non è successo ma può accadere di avvistare cadaveri in decomposizione, diciamo che prima di vederli si “sentono” già a grande distanza.
Dopo qualche riflessione la passeggiata continua, però dall’interno, lungo una stradina parallela ai ghat da cui parte un fitto dedalo di vicoli. Ci perdiamo un po’ in queste viuzze strette pieni di negozietti e mucche e ci fermiamo ad acquistare un set di bracciali da un vecchietto molto simpatico (70 rupie, 1 Eu).
Tornati nuovamente sul Gange acquisto anche tre collane fatte a mano per 210 rupie (3 Eu). Arriviamo quindi a Dashashwamedh Ghat, il ghat più conosciuto e frequentato.
Qui le scale sono più grandi, collegano direttamente a un mercato nella parte alta e nei pressi della riva ci sono i palchi per le preghiere collettive e la pratica dello yoga. Vediamo per la prima volta alcuni turisti occidentali e qui farei una piccola annotazione: non abbiamo incontrato italiani né pullman di turisti, in totale avremmo visto sì e no una ventina di occidentali che avevano all’incirca tutti lo stesso stile, sembravano usciti dalla fotocopiatrice dell’anticonformismo. I giovani avevano lunghissimi dread, piercing e tatuaggi, mentre i più stagionati avevano un’aura hippie nostalgica e un po’ patetica. Tutti erano vestiti con abbigliamento e accessori in linea con gli usi locali.
Facciamo una pausa seduti sulla scale calde di sole e conosciamo un signore tedesco che ci racconta di aver visto molte volte Varanasi, e continua a tornarci per la sua spiritualità. Per motivi legati ai suoi studi stava ripercorrendo le vie del Buddha e il giorno successivo sarebbe andato a Sarnath. Ci dice che Varanasi è molto cambiata rispetto alla prima volta in cui la visitò nel lontano 1966 e in risposta a una mia battuta ci ha tenuto a precisare che non era mai stato un hippy: era andato fin lì richiamato dalla curiosità e dai suoi studi, non dalla retorica psichedelica.
Durante la conversazione un barcaiolo ci ha stressato chiedendo 1200 rupie (17.50 Eu) per fare un giro di un’ora sul Gange con la sua barca a remi ma abbiamo preferito continuare la nostra massacrante ma divertente passeggiata.
Arriviamo finalmente al Manikarnika Gath, il più famoso per le cremazioni ed effettivamente qui la situazione è più industriale rispetto al precedente. Ci sono enormi cataste di legna ammucchiate ovunque, c’è un grande pubblico seduto sui gradoni come se fosse in un anfiteatro antico e le pire che ardono in quel momento sono almeno cinque, tanto che la cerimonia vista ad Harishchandra Ghat in confronto sembra un funerale intimo, riservato a pochi.
Anche qui ci chiedono di non fare fotografie però poi ci indicano anche il modo per raggiungere una postazione migliore per assistere alle cremazioni. Decidiamo di proseguire da soli e ci inerpichiamo per un sentiero che collega a una balconata e da lì proseguiamo fino al limite del crematorio. Ci passa davanti un corteo funerario con uomini che portano a spalla una barella di bambù su cui poggia un cadavere avvolto in un sudario, diretto verso la pira. L’aria è acre e i fumi sono densi e bruciano gli occhi, direi che come primo giorno in India abbiamo fatto il pieno di sensazioni forti.
Non restiamo a lungo a vedere il disfacimento causato dalle fiamme e continuiamo a camminare fino al vicino, e spettacolare, Scindia Ghat: un tempio imponente scivolato nell’acqua del fiume che assicura foto meravigliose.
Siccome era previsto dal nostro programma preparato in Italia, affittiamo qui una barca a motore per navigare sul Gange e spendiamo solo 500 rupie (7.30 Eu), meno della metà rispetto all’offerta precedente.
L’imbarcazione arriva fino al primo crematorio visto al mattino, Harishchandra Ghat, e poi rientra lentamente a motore spento facendosi trascinare dalla corrente.
Dopo un’ora di navigazione siamo di nuovo a terra e ci arrampichiamo sulle scale del Ghat fino alla Moschea di Alamgir, qui troviamo ragazzi che giocano a cricket – lo sport nazionale molto amato dagli indiani – e si divertono come matti. Facciamo una pausa e riprendiamo il cammino verso il Vishwanath Temple, un tempo dedicato a Shiva inserito nell’omonimo quartiere. I varchi sono presidiati da guardie armate e i metal detector ci confermano la necessità di tenere gli occhi aperti come consigliato nella guida, a causa di non meglio precisate “tensioni locali”. Gli accessi sono quattro e sono riservati agli hindu, mentre gli stranieri hanno un loro ingresso ma prima devono lasciare borse e zaini presso armadietti numerati a pagamento. La calca è davvero tanta e i vicoli strettissimi, non sembra ma sono due file di persone che marciano in sensi opposti e noi ci siamo in mezzo. Si spinge moltissimo e la polizia urla di continuo comandi che per noi restano incomprensibili, riusciamo a mantenere la calma ma rinunciamo a entrare nel tempio per guadagnare il più in fretta possibile la strada principale. Consiglio non richiesto per claustrofobici e persone sensibili: se in questo quartiere vedrete anche voi la calca che avanza ed esce dal tempio non vi avvicinate neppure, potrebbe risultare una situazione molto fastidiosa.
Ci lasciamo la folla alle spalle e ritroviamo il traffico che, se possibile, dopo la pace offerta dalle rive del Gange ci sembra ancora più caotico e convulso del mattino. In questa zona scopriamo che non possono accedere motorisciò per cui proseguiamo a camminare in una sorta di isola pedonale deputata allo shopping ma anche qui, forse perché siamo stanchi, accaldati, affamati e con i sensi pieni di colori, urla, odori, polveri non reggiamo a lungo i ritmi della ressa, quindi preferiamo rientrare in hotel con un motorisciò preso al volo (200 rupie, 3 Eu).
Alle 20:00 siamo sotto una bella doccia purificante e dopo scendiamo a mangiare. Stavolta ordiniamo come pane cheese paratha e roti (chapatti), poi kofta vegetariani, cioè delle frittelle di vegetali con curry, poi riso con verdure di stagione e burro, e un bel pollo al curry. Paghiamo 763 rupie (11.20 Eu), prenotiamo il taxi e programmiamo la sveglia alle 08:00, domani si parte per Agra!
Varanasi è da vedere. Sinceramente all’inizio temevamo di aver fatto un errore a cominciare proprio da questa città così estrema e fuori dalla rotta del Rajastan ma siamo contenti di aver fatto questa deviazione.
Varanasi non la dimenticheremo.

28/03 Varanasi – Agra

Partiamo da Varanasi alle 09:30 del mattino diretti ad Agra con un volo Air India (41 Eu). Non ne avevo trovati durante la passeggiata lungo il Gange ed ero ormai rassegnato ad aver interrotto la mia collezione di magneti, quando clamorosamente, 10 minuti prima della partenza, proprio tra i pochissimi negozi dell’aeroporto trovo uno shop che vende calamite di Varanasi! Ne acquisto un paio insieme a una maglietta per 700 rupie (10 Eu), non un granché ma sempre meglio di niente.
Dopo un’ora di volo passata a sonnecchiare ritiriamo i bagagli e troviamo chiuso il box dei taxi prepagati, quindi siamo costretti a contrattare con un tassista l’importo di 400 rupie (5.90 Eu) per arrivare al nostro hotel Howard Plaza.
La struttura si presenta molto bene anche se avrebbe bisogno di qualche lavoretto e in reception l’accoglienza è fredda. Andiamo avanti, la stanza è spaziosa e arredata bene, lasciamo gli zaini e scendiamo giù in piscina a programmare il resto della giornata.
Verso le 16:00 siamo di nuovo in strada e con 100 rupie (1.50 Eu) prendiamo un tuk-tuk che ci porta all’Agra Fort. L’ingresso costa 300 rupie (4.40 Eu) e dopo aver fatto lo slalom tra le guide improvvisate, varchiamo l’Amar Singh Gate, il maestoso portale d’ingresso e iniziamo a scoprire i giardini di questo complesso militare del 1565.
Il forte nel tempo è stato arricchito così tanto da sembrare un palazzo reale ornato con le migliori decorazioni e intarsi dell’arte moghul. Togliamo le scarpe per entrare nella deliziosa Nagina Masjid, la piccola “Moschea Gemma” adiacente al Bazar delle Signore. Da qui ci spostiamo verso il cortile del Diwan-i-Khas, la sala delle udienze pubbliche, dove possiamo ammirare in lontananza il grandioso Taj Mahal.
Fu proprio in questo forte, all’interno della torre ottagonale Khas Mahal, che nel 1666 fu imprigionato da suo figlio l’imperatore Shah Jahan. La sua prigione dorata era esposta verso il Taj Mahal che lo stesso imperatore aveva fatto costruire per commemorare la moglie, che raggiungerà dopo 8 anni di reclusione. Usciamo passando per la Diwan-i-Am, la sala delle udienze pubbliche, e dopo la pace dei giardini curatissimi quasi ci manca un po’ di sano caos indiano.
Così appena fuori dal forte saliamo su un tuk-tuk e per 100 rupie (1.50 Eu) ci facciamo accompagnare alla moschea Jama Masjid, all’interno del Kinari Bazar. Volevamo un po’ di caos? Siamo stati accontentati: è buio, siamo gli unici occidentali e ci osservano tutti però senza ossessionarci di richieste. Così dopo aver visitato il sito religioso, non indimenticabile, ci fermiamo due volte, per comprare infradito di cuoio di cammello (400 rupie, 5.80 Eu) e poi in un negozietto che vende oggetti in marmo lavorati a mano. Compriamo due cofanetti di dimensioni e colori diversi e due lucerne portacandele intarsiate, tutto per 700 rupie (10 Eu).
Rientriamo in hotel con altre 100 rupie (1.50 Eu) e ceniamo al ristorante Rendezvous. Nel piatto finiscono: naan, hyderabadi dum biryani (riso basmati con carne di pollo precedentemente marinata in una mistura di spezie di Hierabad per una notte e poi inumidita nello yogurt). Poi seek lajabab (un kebab di agnello speziato con peperoni, servito in salsa di pomodoro e cipolle), samosa chat ripieni di patate, piselli, frutta secca, ceci, cipolla, chilli, chutney e Kathi roll’s, una piadina con pollo speziato tikka. Spendiamo 1700 rupie (25 Eu), fanno un po’ di casini con il conto che non riescono ad associare alla mia camera perché hanno scambiato la mia registrazione al check-in con quella di un altro cliente. Per fortuna all’arrivo non funzionava il POS, altrimenti avrei pagato anche la tariffa dell’altro cliente che risultava più alta della mia. Questo disguido mi ha confermato che in reception non lavorano bene e che l’hotel ha bisogno di una rinfrescata, meglio dormirci su… 😉

29/03 Agra

Sveglia alle 08:30 e considerate le massicce dosi di cibo piccante dei giorni scorsi, e in particolare quello della sera prima, optiamo per una sana e ricca colazione continentale con carico di zuccheri: ciambelle, cornetti, nastrine, toast con marmellata e succo d’arancia.
Zaini in spalla usciamo dall’hotel e troviamo ad aspettarci Rama, l’autista di tuk-tuk che il giorno prima ci ha portato al forte di Agra. Abbiamo diverse cose da vedere così decidiamo di passare tutta la giornata con lui, quindi trattiamo un prezzo forfettario per le visite al Taj Mahal e in altri tre siti per la cifra di 500 rupie (7.30 Eu).
La prima tappa è al Southgate, l’ingresso sud del Taj Mahal. Rama ci lascia alla biglietteria ed imbocchiamo le file separate per uomini e donne, da rispettare sia per fare il biglietto sia per accedere. L’ingresso costa 750 rupie (11 Eu) e include una bottiglietta d’acqua, i copri scarpe per entrare nel mausoleo e la navetta per avvicinarsi ai cancelli.
Quando arriverete in questo edificio tanti procacciatori si offriranno per accompagnarvi su calessi trainati da cavalli o cammelli, ma perché spendere di più? 🙂
Ai controlli di sicurezza sono stati molto rigidi e non ci hanno fatto passare un piccolo treppiede che abbiamo dovuto lasciare lì, per fortuna la guida era nello zaino altrimenti avrebbe rischiato anche quella. Ebbene sì, l’afflusso di persone è così massiccio e costante che evitano qualsiasi cosa possa intralciare gli accessi, come persone che si fermano a leggere o a scattare foto elaborate.
Superiamo i portali di ingresso e finalmente appare davanti a noi l’opera monumentale simbolo dell’India, conosciuta in tutto il mondo e ovviamente Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO: il Taj Mahal.
L’abbiamo visto in foto, in televisione, nel nostro immaginario è una figura nota ma la visione d’insieme del complesso è ancora più spettacolare. Il bianco dei marmi scintilla sotto il sole e contrasta con il verde dei giardini antistanti la base quadrangolare, mentre la cupola si staglia contro l’azzurro del cielo. Tutto è stato sapientemente calcolato per stupire e imprimersi nella mente, anche il luogo della costruzione, lungo il fiume Yamuna, è stato scelto perché geologicamente sarebbe stato impossibile costruire altri edifici attorno al mausoleo.
Vale la pena ricordare che siamo di fronte a una tomba, non è né un tempio né un castello, è un monumento funebre costruito nel 1632 che ospita le spoglie di Mumtaz Mahal, seconda moglie di Shah Jahan.
Intarsiato con pietre semipreziose, hanno partecipato ai lavori 20.000 persone tra artigiani e architetti provenienti da tutto il mondo. Sono tante le leggende che orbitano sulla storia del Taj Mahal e vale la pena approfondire un po’ la sua conoscenza per godersi pienamente la visita.
Dopo esserci prestati volentieri agli ormai rituali selfie con sconosciuti, scattiamo anche noi foto meravigliose e ci avviciniamo verso la sala che accoglie le tombe del sultano e della sua amata. C’è tanta gente ma non c’è calca, tutto scorre piuttosto rapidamente forse perché seguiamo la fila dedicata ai possessori di biglietti per stranieri che costano di più ma garantiscono una maggiore velocità.
Ora diciamocela tutta: il meglio del Taj Mahal è negli esterni. Man mano che ci si avvicina si ammirano ancora di più i colori e le elaborate decorazioni ma all’interno non si segnala nulla di particolarmente memorabile se non la grata che protegge i due cenotafi, scolpita finemente da un unico blocco di marmo.
Ci affacciamo lungo il fiume e sostiamo qualche minuto in giardino, seduti su una panchina all’ombra di rigogliosi alberi di sandalo. Dopo due ore usciamo e compriamo una t-shirt e delle calamite per 500 rupie (7.30 Eu). Aggiungiamo presso lo shop di Shilpgram anche un cofanetto.
Raggiungiamo il nostro Rama e proseguiamo verso la seconda tappa, il monumento funebre di Itimad-ud-Daula. L’ingresso costa 110 rupie (1.60 Eu) ma c’è uno sconto se si esibisce il biglietto del Taj Mahal per cui si paga 100 rupie (1.50 Eu). Anche questo è veramente molto bello e, anche se più piccolo, è visibilmente più decorato soprattutto negli interni. Per fortuna è anche molto ma molto meno visitato per cui c’è la possibilità di fare altre bellissime foto senza intrusi e godersi una visita tranquilla senza l’assillo della folla né di procacciatori che tentano di appiopparti la loro compagnia per farti da guida.
Partiamo per la terza destinazione, Chini-ka-Rauza, un’altra tomba messa piuttosto male. Qui l’ingresso è libero ma tutto è in completo stato di abbandono. Gli intarsi e le pietre sono quasi del tutto rimossi, non abbiamo incontrato un solo turista e c’erano ragazzi che giocavano a cricket lanciando la palla contro il monumento. In tutta onestà: è una visita che si può tranquillamente saltare.
Restiamo pochissimi minuti e poi ripartiamo verso il Mehtab Bagh, un parco celebre per le sue viste sul Taj Mahal dall’altra sponda del fiume Yamuna.
Anche qui ci fermano diverse persone per fare delle foto insieme e continuiamo ad essere sorpresi da quella che ormai è evidente una prassi abbastanza frequente: ho chiesto in un paio di occasioni i motivi di quelle foto ma le risposte sono sempre state evasive, quasi pudiche. Cose del tipo “le faccio vedere agli amici” oppure “le metto su Facebook” 😀
Queste richieste insolite ti fanno sentire un po’ una star di Hollywood, anzi di Bollywood, ma ci siamo sempre prestati con piacere e anzi abbiamo arricchito il nostro album con foto a nostra volta scattare insieme a loro. Alla fine ne abbiamo scattate 43 solo a gruppetti di sconosciuti!
L’ingresso al parco costa 100 rupie con lo sconto come per il precedente e vale la pena fare una visita, per la pace, i colori e la vista del Taj Mahal che sovrasta il placido fiume.
Torniamo verso il tuk-tuk e dichiariamo concluse le nostre escursioni, a questo punto della giornata siamo in confidenza con Rama e ci dice molto onestamente come stanno le cose per lui: se adesso lo accompagniamo in alcuni negozi di souvenir, lui prende un mancia di 20 rupie anche se non acquistiamo nulla. Quindi, considerata la sua disponibilità, accettiamo volentieri e ci facciamo portare un po’ in giro presso alcuni negozianti con cui ha questa collaborazione. In un due occasioni compriamo anche sei pashmine, una t-shirt, una scatola porta anelli, the, spezie, una federa per il cuscino, spendiamo 1800 rupie (26.35 Euro) e contribuiamo ad aumentare anche il compenso di Rama 😉
A cena raggiungiamo Pinch of Spice, che gode di ottime recensioni. Il locale è molto bello e arredato benissimo, decidiamo di ordinare alla carta e non servirci al buffet. Anche se sono soltanto le 20:00 abbiamo molta fame e ordiniamo come antipasto degli spring roll in versione indiana, in attesa delle portate principali: navratan pulao (riso con ananas, piselli, uvetta, funghi, fagiolini, carote e formaggio) e afghani murg (pollo marinato in cardamomo verde e kaju paste, cotto in tandoor). Per finire aggiungiamo mutton rogan josh (uno spezzatino di agnello “moderatamente” speziato, insaporito con curry). Spesa totale 1570 rupie (23 Eu).
Ok, la giornata è finita e siamo molto soddisfatti delle visite che abbiamo fatto. Rama ci riporta in hotel e prima di andare in camera risolviamo finalmente la questione sospesa con il pagamento della stanza, così domani mattina possiamo partire senza perdere in tempo durante il check out. Hai visto mai che ritroviamo di turno la stessa persona dell’arrivo? 😉

30/03 Agra – Fatehpur Sikri – Abhaneri – Galtaji temple – Jaipur

Partenza ore 11:00. Questa giornata sarà lunga e prevede un trasferimento in macchina da Agra a Jaipur.
Abbiamo organizzato tutto dall’Italia chiedendo un preventivo per il tragitto a Ranjeet Singh, titolare di Colourful India Travel, un tour operator consigliato su alcuni forum di viaggiatori.
Sono bastate un paio di mail per fissare il prezzo a 5500 rupie (80 Eu). Sul posto si può trovare anche a qualcosa di meno ma abbiamo preferito avere la sicurezza del collegamento, che si è rivelato efficiente e professionale. La cifra includeva ovviamente la benzina, i caselli e l’autista (ho guidato in USA – e non solo – per migliaia di chilometri, ma mai ho pensato di poterlo fare in India!).
Alle 12:00 arriviamo a Fatehpur Sikri, altro Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. L’ingresso costa 250 rupie (3.60 Eu) e la navetta 10 (0.15 Eu).
Fino all’ingresso del complesso monumentale l’assillo di persone che ti avvicinano è continuo, in particolare sono bambini e ragazzi che provano a vendere qualsiasi cosa. La richiesta è incessante, a volte è addirittura necessario essere bruschi per fargli capire che non sei interessato, anche rischiando di risultare antipatico. Ti bombardano letteralmente di richieste, la frase che ho detto più spesso in India è “No, thank you” e qui ho messo il record assoluto.
All’interno ci sono molte cose da vedere e tutto è molto curato: le sale delle udienze private e pubbliche, la sala del tesoro, il giardino delle signore e il Panch Mahal, un padiglione con cupola a bulbo. Da non perdere le vasche ornamentali e il Palazzo di Jodh Bai, dimora della moglie di Akbar, è un mix perfetto di stili diversi: colonne indiane, cupole islamiche e tegole persiane azzurre e turchesi. Quando culture e popoli si incontrano possono nascere cose straordinarie.
Dopo ci trasferiamo verso la Jama Masjid, una moschea costruita nel 1571 dotata di una porta d’ingresso monumentale, la Buland Darwaza alta ben 54 metri.
All’interno della moschea si trova la splendida tomba di Shaik Salim Chishti, un mausoleo in marmo bianco del 1581 a cui si accede scalzi e con il capo coperto, sia uomini sia donne. Qui le donne senza figli legano alla grata di marmo antistante la tomba, un filo rosso come gesto votivo per propiziare una gravidanza.
Di ritorno verso il parcheggio ci fermiamo a comprare tre magneti per 60 rupie (0.45 Eu) e alle 14:30 siamo di nuovo in marcia, diretti verso Abhaneri dove arriviamo alle 17:00 per vedere il famoso Chand Baori, un pozzo a gradini che sembra uscito da un quadro di Escher.
Giusto venti minuti per fare delle foto e ripartiamo diretti al tempio Galtaji, altrimenti noto come Monkey Temple, dove arriviamo alle 19:00.
Ormai è buio pesto, turisti non se ne vedono e siamo un po’ timorosi mentre superiamo i cancelli d’ingresso. Alcuni ragazzi vestiti con abiti tradizionali ci vengono incontro e ci presentano a Sadhu Dubebaba che ci introduce nel tempio. Siamo soli, il sadhu ci fa strada e ci conduce verso una porticina chiusa con un enorme lucchetto. Tira fuori la chiave, apre i battenti e ci invita a entrare in una saletta. Sediamo per terra insieme a lui e improvvisa per noi una breve cerimonia privata per augurarci buona fortuna. Ci applica in fronte un tilak arancione, ci lega al polso un bracciale giallorosso, ci unge il dorso della mano con un olio profumato e poi recita un mantra incomprensibile mentre ci sfiora con una piuma di pavone. Alla fine ci spiega le differenze tra i colori e le forme dei tilak, che identificano la confraternita di appartenenza e rappresentano una visibile benedizione. La posizione è quella del terzo occhio, altrimenti conosciuto come “occhio spirituale”, secondo l’ayurvedica la sede della più importante terminazione nervosa del corpo umano.
Dopo seguiamo due bramini che ci portano dalle scimmie e ci raccontano di aver visto sette volte una tigre e più volte i leopardi, siamo nel loro territorio e il tempio ospita una ricca colonia di scimmie e due piscine: l’ambiente perfetto per il grande felino asiatico.
In questo tempio ci sono oltre 1000 scimmie e ad alcune di queste diamo da mangiare, il luogo è silenzioso e immerso nel verde. Dopo i timori iniziali ci godiamo una visita davvero unica, tanto che andiamo via contentissimi di averlo visto fuori dagli orari abituali. Anche perché i ragazzi ci dicono che arrivano in media 3/4 pullman al giorno di turisti italiani!
Alle 20:00 ripartiamo e dopo un’ora arriviamo in hotel, solito caos di traffico anche qui ma la stanza del Devraj Niwas ci ripaga del lungo viaggio: bella, pulita, spaziosa, con una verandina esterna privata circondata da bambù con due belle poltroncine di vimini per rilassarsi un po’.
Con le forze residue ci trasciniamo verso il ristorante The Forresta dove proviamo a ordinare qualcosa di non piccante per i nostri stomaci che iniziano ad accusare il regime alimentare ultra speziato. Purtroppo non c’è niente da fare, anche se ti assicurano che non c’è piccante o che è poco speziato, ti arriverà comunque una portata fumogena. Anche se lo definiscono “medium”, “mild” o “little bit”, aspettatevi comunque qualcosa che brucia in una scala che va dal nostro molto piccante al nucleare. Pazienza, piuttosto che ripiegare su McDonald e pizzerie ci immoliamo sull’altare del chutney sacrificati al Dio Peperoncino.
Ordiniamo pollo al sesamo marinato in miele e pepe, seekh kebab (polpette di agnello alla griglia, aromatizzate alla menta), riso biryani e riso fritto, entrambi con verdure di stagione. Dopo aver pagato il conto di 1700 rupie (25 Eu), ci trasciniamo in stanza dove ci aspetta un enorme letto a baldacchino per concludere un’altra soddisfacente giornata indiana.

31/03 Jaipur

Dopo una colazione leggera, con 100 rupie (1.50 Eu) ci facciamo portare al New Gate per iniziare un itinerario a piedi all’interno della Città Rosa. Sono 3 km da fare in 3,5 ore, almeno secondo quanto prevede la nostra guida, ma alla fine impiegheremo circa il doppio del tempo previsto perché veniamo subito rapiti dall’atmosfera del Bapu Bazar e non ci facciamo pregare per iniziare a fare un po’ di sanissimo shopping. Compriamo quantità industriali di orecchini, collane e bracciali per 700 rupie (10 Eu), un caffettano per 400 (5.90 Eu), infradito per 200 (2.95 Eu), un’agenda fatta a mano con carta riciclata per 140 (2 Eu) e due t-shirt e due magneti per 250 (3.70 Eu).
Nel mezzo non manchiamo di visitare alcuni palazzi storici. Cominciamo dall’imponente Hawa Mahal, cinque piani di arenaria rossa, da visitare perché ha un biglietto di ingresso cumulativo, che dura due giorni e permette l’ingresso a sette siti, tra cui l’osservatorio di Jantar Mantar e il celebre Amber Fort. Il biglietto costa 400 rupie (5.90 Eu).
Continuiamo a passeggiare fino all’ingresso di Jantar Mantar, altro luogo Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. All’interno ci sono una serie di strutture dalle architetture insolite e a prima vista incomprensibili, ma che hanno un senso logico, anzi scientifico. Siamo all’interno di un osservatorio astronomico e quelle installazioni strambe sono perfettamente allineate con i principali pianeti e costellazioni: se siete esperti e appassionati di astronomia resterete incantati, altrimenti non lo troverete granché interessante però potrete fare ugualmente delle foto spettacolari.
Di fronte Jantar Mantar c’è il City Palace, la principale attrattiva di Jaipur. L’ingresso costa 400 rupie (5.90 Eu) ma non include la visita agli interni del palazzo dove ancora vivono i discendenti del maharaja. Per visitare queste stanze private si può fare un biglietto a parte che costa ben 37 Euro per una visita guidata di 45 minuti, uno sproposito rispetto agli standard indiani!
Anche nel City Palace troviamo due sale ormai familiari: Diwan-i-Khas e Diwan-i-Am, rispettivamente la sala delle udienze private e pubbliche. Nella prima ci sono due giganteschi recipienti d’argento alti 1,60 metri all’interno delle quali il maharaja, devoto induista, si faceva portare a Londra l’acqua del Gange per le sue abluzioni.
Il meglio del palazzo lo offre il cortile del Pitam Niwas Chowk su cui affacciano quattro coloratissime porte che rappresentano le stagioni. La più fotografata è quella dell’autunno, il Peacock Gate, con cinque bassorilievi di pavoni dal piumaggio sgargiante.
All’uscita continuiamo il nostro percorso pedonale lungo le mura della città vecchia e alcuni passanti ci indicano un tempietto di Krishna sull’altro lato del nostro marciapiede. Già al mattino ce l’avevano segnalato ma abbiamo declinato l’invito pensando che si trattasse del solito procacciatore che poi avrebbe provato a venderci qualcosa. Invece stavolta decidiamo di approfondire, quindi attraversiamo la strada ed entriamo. Altre persone ancora ci indicano la direzione per andare sul terrazzo dove scattiamo delle foto dall’alto, il tempio non era niente di eccezionale e alla fine pensiamo che l’invito ad andare e poi entrare era un gesto devozionale disinteressato.
Intorno alle 19:30 preleviamo per la terza volta da un ATM 10000 rupie (147.50 Eu) e poi rientriamo, distrutti dal caldo dal sole e dal caos delle strade, ci restano le forze giusto per una doccia e la cena.
A proposito, che si mangia oggi? Murg badshash, un pollo arrosto condito con zenzero, aglio e crema di yogurt, riso con cumino e parantha pudina per un totale di 1000 rupie (14.70 Eu). Stavolta abbiamo esplicitamente chiesto tutto non piccante anche se il pollo… un pochino… va be’, come non detto, non ce la fanno proprio!
Un’altra notte al reparto grandi ustioni 😀

01/04 Jaipur

Alle 12:00 usciamo diretti verso l’Amber Fort, a circa 13 chilometri da Jaipur. Ci porta un tuk tuk per 500 rupie (7.40 Eu) e il conducente ci aspetta fuori il parcheggio per la durata della visita.
Il forte è arroccato su una collina e ai suoi piedi c’è un laghetto in cui si specchia, il colore delle mura si confonde con quello della roccia e l’intera struttura sembra un pezzo unico scolpito nella montagna. Tutto intorno ci sono poderose fortificazioni che si arrampicano sui crinali a formare una muraglia difensiva insuperabile.
Si può raggiungere la cima e quindi l’ingresso del forte a dorso di elefante ma solo fino alle 12:00 e dopo le 15:30. Quando arriviamo noi i pachidermi sono a riposo e quindi ci tocca la scarpinata biblica fino al Jaleb Chowk, il cortile principale.
Varcato l’ennesimo portale di ingresso maestoso e decorato, superiamo il Ganesh Pol – il portone da cui si accede agli appartamenti del maharaja – e qui bisogna segnalare la luccicante Jai Mandire, la Sala della Vittoria, riccamente decorata con intarsi e specchi. Poi ci avventuriamo in altri corridoi e cortili, e ci perdiamo letteralmente nel dedalo di cunicoli e passaggi della struttura militare.
Dopo aver ritrovato l’orientamento, ci andiamo a sdraiare sulle amache fisse nel cortile centrale del maharaja su cui affacciano gli appartamenti delle donne. Qui attiriamo l’attenzione di un gruppo di turisti che arriva da Chennai e – indovinate un po’? – ci chiedono di fare alcune foto insieme. Decine di foto. Sono poliziotti e come posa scelgono la stretta di mano, ci mancava solo lo scambio dei gagliardetti e il calcio d’inizio. Scambiamo ancora qualche parola, tanti sorrisi e alla fine ci promettiamo di spedirci le foto via mail.
Sulla strada del ritorno ci fermiamo a scattare qualche foto al Jal Mahal, il Palazzo del Vento, sul lago Man Sagar. Più che sul lago bisognerebbe dire dentro il lago, perché il palazzo è letteralmente immerso nell’acqua ricca di pesci e solo l’ultimo piano e il terrazzo emergono. Il sito non è visitabile ma si possono fare delle foto uniche.
Al rientro facciamo una pausa in hotel e poi usciamo di nuovo fuori per continuare lo shopping al bazar del New Gate. Mentre scendiamo dal tuk-tuk una dolorosa botta al ginocchio ci mostra tutta la compassione degli indiani: arrivano in tre dopo aver abbandonato le bancarelle con la propria merce. Una signora rovescia una cassetta per farci sedere sul pulito, un altro porta il ghiaccio e un altro ancora viene a indicare come raggiungere una farmacia.
Per fortuna è solo una contusione e non c’è bisogno di approfondire, però abbiamo capito in questa occasione più che mai che anche se non hanno niente da dare, nel momento del bisogno non si tirano indietro e ti offrono ciò che possono. L’avevamo notato in altre situazioni dove eravamo spaesati e ci hanno sempre aiutato, e in questa occasione ne abbiamo avuto la conferma definitiva.
Ci fermiamo con loro per una pausa, poi ringraziamo tutti e zoppicando ci congediamo verso il miglior anestetico: shopping etnico compulsivo. Compriamo ancora infradito e un paio di cavigliere, poi rientriamo e consumiamo l’ultima cena a Jaipur a base di naan, riso con cumino, tandoor bharwa aloo (patate bollite con semi di sesamo), zeera murg tikka (bocconcini di pollo marinato nel cumino) e murg reshmi kebab (pollo sfilacciato con pasta di anacardi), conto finale: 1500 rupie (22.10 Eu).
Domani si riparte!

02/04 Jaipur – Delhi

Il personale del Devraj Niwas è molto attento alle richieste dei clienti, così ci concedono un check-out ritardato che ci permette di lasciare la camera alle 13:00. Saldiamo il conto e dopo mezz’ora prendiamo il taxi che ci porterà in aeroporto in 45 minuti per 600 rupie (8.85 Eu). Il volo è Air India comprato online al costo di 39 Euro e dura 50 minuti.
Lo so che questi brevi spostamenti si potevano fare in treno ed immergersi ancora di più nel concetto, sempre molto relativo, di “vera India”, ma siamo stati molto pragmatici e visto che il tempo a disposizione non era tantissimo abbiamo preferito evitare intoppi, ritardi e lunghi viaggi potenzialmente scomodi. Così, visto che le cifre dei voli interni non erano astronomiche, abbiamo preferito spendere un po’ di più ma guadagnare molte ore di tempo rispetto ai tragitti in treno, perché dovevamo ottimizzare i 10 giorni da affrontare con ritmi serrati.
Atterriamo a Delhi e cerchiamo il taxi prepagato, qui un servizio fornito dalla polizia della capitale, e con la tariffa governativa di sole 395 rupie (5.80 Eu) dopo un’oretta arriviamo all’hotel The Hans New
Delhi. Fanno un po’ di casino con la stanza perché ce ne assegnano una con letti separati, allora torniamo a farci sentire e ce ne mostrano un altro paio da scegliere. Così finiamo al piano 20 di 21, bella stanza e vista decisamente panoramica.
Facciamo qualche ricerca su internet e troviamo il Rajdhani Thali Restaurant, un ristorante esclusivamente vegetariano. Ha ottime recensioni ed è consigliato anche sulla guida, quindi lo raggiungiamo a piedi visto che dista solo 600 metri da noi. La formula è sfiziosa: all’ingresso ti disegnano un tilak di benvenuto sulla fronte, poi ti portano al tavolo e dopo pochi istanti arriva un cameriere con una enorme brocca di ottone piena di acqua calda e la fa scorrere in un catino mentre ti lavi le mani. Dopo ti portano una gamella di acciaio con dentro altre ciotoline e inizia una processione di camerieri che a turno riempiono i recipienti con zuppe, formaggi, creme, verdure, riso, semole e così via fino ai dolci. In totale sono 23 assaggi di cui puoi chiedere il bis finché vuoi, il tutto servito con diversi tipi di pane che portano rigorosamente caldo, appena cotto. Un servizio davvero eccellente, come la cucina di ottima qualità, per l’incredibile cifra di 900 rupie per due persone! (13.20 Eu).
All’uscita mastichiamo un po’ di jhilmil supari, un misto di spezie digestive che rinfrescano la bocca, e ci godiamo un improvviso temporale tropicale che ci coglie a metà strada. Questa ci mancava!
Lo spettacolo finale ce lo godiamo dalla postazione privilegiata al ventesimo piano, dove la nostra televisione è una grande finestra che mostra una tempesta di fulmini abbattersi sulla notte scura di Delhi.

03/04 Delhi

Dopo tutte le verdurine della sera prima, al mattino la colazione in hotel ci riserva una gradita sorpresa: finalmente riusciamo a mangiare un po’ di sano bacon fritto e salsiccia! Ci aggiungiamo anche pane tostato, marmellata, ciambelle, cornetti, nastrine, succo di mango e alle 11:00 siamo in strada diretti alla metro.
Sì, la metro. Ne avevamo letto bene ma dopo ciò che abbiamo visto nelle strade indiane dubitavamo che potesse essere davvero come nelle descrizioni. E invece no, tutto è stato confermato: la metro è sorprendentemente pulita ed efficiente, anche più di quelle che ho usato in Europa. Una cosa che non ti aspetti.
I controlli all’interno sono simili a quelli degli aeroporti: nastri per i bagagli e metal detector, quindi risulta difficile non pagare il biglietto 🙂
Gli accessi sono separati uomini-donne e anche i vagoni sono diversi: ci sono quelli per sole donne e quelli misti. Spendiamo 10 rupie (0.15 Eu) per arrivare in Chatni Chowi e una volta emersi siamo di nuovo circondati dal caos, più forte che mai.
Disorientati nella folla, stavolta cediamo alla corte di un ciclorisciò che ci vuole accompagnare alle mete che abbiamo in programma: Forte Rosso, Jama Masjid e mercato delle spezie. Ci chiede solo 150 rupie (2.20 Euro) e subito dopo la partenza abbiamo già deciso che alla fine gli avremmo raddoppiato il compenso perché ci sembrava davvero troppo poco.
All’ingresso del Red Fort ci avvicina un ragazzo del posto che inizialmente scambiamo per il solito ambulante ma non è così, anzi, ci dà una bella dritta perché eravamo nella lunghissima fila riservata agli indiani mentre potevamo andare al botteghino per gli stranieri che era praticamente vuoto!
L’ingresso costa 250 rupie (3.70 Eu) e va detta una cosa in tutta sincerità: onestamente, dopo aver visto i forti e i palazzi di Agra e Jaipur, questa struttura non risulta granché e si potrebbe tranquillamente evitare. Mentre vaghiamo nei giardini, diversi ragazzi ci chiedono di fare foto insieme e verso la fine del percorso ritroviamo il nostro amico che ci aveva suggerito la fila giusta per noi, anche lui trova il coraggio e finisce per farci una foto.
All’uscita ritroviamo Santos che con il suo ciclorisciò ci porta alla moschea Jama Masjid, la più grande d’India, dove entriamo alle 14:00, appena terminata la preghiera del venerdì. L’ingresso costa 300 rupie (4.40 Eu) e vale la pena entrare anche solo per ammirare il quadrilatero circondato dai minareti alti 40 metri, capace di ospitare 25.000 fedeli.
Ci mettiamo in un angolo a leggere sulla guida le informazioni sulla moschea quando a un tratto, complice la giornata festiva, ci ritroviamo letteralmente circondati da famiglie e indovinate un po’ cosa vogliono? Foto, foto, foto.
Qui mettiamo il record di foto scattate con indiani, sono decine di persone che a turno si mettono in posa sorridenti al nostro fianco rivolti verso gli smartphone di amici e parenti. Più volte gli diciamo di usare la moschea come sfondo ma niente da fare, saremmo controluce e la foto verrebbe male: meglio la cancellata arrugginita alle nostre spalle! Ci divertiamo molto a scherzare con loro, stringere mani, abbracciare i bambini più timidi e recalcitranti che le madri trascinano verso di noi come se fossimo il Babbo Natale seduto nei grandi mall americani. Non basta spostarsi perché anche all’angolo opposto riceviamo le stesse richieste da altre famiglie, alla fine usciamo molto carichi e ci sfoghiamo al mercato delle spezie. Qui inizia un’altra sessione di shopping selvaggio: pacchi da 250 grammi di cumino, curcuma, curry, coriandolo, masala intero e trito, chilli e vari tipi di the. In tutto spendiamo 1500 rupie (22.10 Eu).
Dopo gli acquisti ci facciamo portare alla fermata della metro e una volta a destinazione Santos, invece di ringraziare per avergli raddoppiato il prezzo concordato e aggiunto una buona mancia, si impunta dicendo che il prezzo concordato era per ora e non per tragitto. Sapevamo di questo giochino, ne avevamo letto ma nessuno l’aveva messo in pratica finora, la cifra richiesta in ogni caso non è esosa ma è la presa in giro che non digerisco, quindi gli lascio i soldi sul risciò, volto le spalle ed entro in metro. Rispetto al mattino siamo nell’ora di punta e c’è una gran fila, quindi dopo un po’ decidiamo di rinunciare ai mezzi pubblici e torniamo in superficie dove ritroviamo ancora il buon Santos che come se non fosse successo niente era pronto a riprenderci a bordo e domanda: “Where?”
Lo ignoriamo e prendiamo un tuk tuk che ci porta al Main Bazar per 350 rupie (5.10 Eu). Qui compriamo tutto il resto: magneti, vestiti, sportine, immagini delle divinità hindu, bracciali,orecchini, kajal, the, scatolini, borse… una marea di roba con meno di 2000 rupie (circa 30 Eu). Alla fine non trattiamo neanche più tanto siamo distrutti, in fondo le cifre sono sempre irrisorie e gli assilli continui, a volte snervanti…
Ceniamo al Kaffa con murgh makhani, petti di pollo cotto in tandoori con pomodoro, burro e crema, accompagnati da saada chawal, riso basmati e pane laccha parantha. Spendiamo 950 rupie (14 Eu) e ci prepariamo per l’ultima notte indiana, la valigia può attendere. Almeno fino a domani.

04/04 Delhi – Roma

Dopo una gran colazione è il momento di fare le valigie. Anche se abbiamo davanti a noi tutta la giornata da trascorrere in città, dobbiamo lasciare la stanza e quindi dobbiamo preparare i bagagli come se dovessimo andare in aeroporto. Per fortuna un temporale spaventoso si scatena e ci trattiene in hotel, così abbiamo tutto il tempo per organizzare la nostra giornata. Come orologi sincronizzati con il meteo, quando abbiamo finito è spuntato il sole e l’aria è mite.
La prima tappa è ancora un ATM per ritirare le ultime 3000 rupie (44.20 Eu) e poi in metro arriviamo fino alla Humayun’s Tomb, monumento funebre che ha ispirato il Taj Mahal. L’ingresso costa 250 rupie (3.70 Eu) e la passeggiata da fare è molto gradevole.
Sostiamo qualche tempo tra gli alberi e gli scoiattoli e poi ci avviamo verso l’uscita per fare gli ultimi acquisti. Andiamo in tuk-tuk fino al Janpath Market dove scateniamo l’ultimo shopping isterico con una spesa totale di ben 30 euro. Cosa finisce nello zaino questa volta? Sciarpe, maglie, gonna, sportine, parei, bracciali, orecchini, agenda, shottini, statua del Buddha sdraiato e una decina di federe per cuscini, oltre agli immancabili magneti.
Questo mercato è il più turistico (e pulito) che abbiamo visto in tutto il viaggio. Qui abbiamo trovato praticamente tutto quello che avevamo acquistato nei giorni scorsi ma i prezzi, per quanto bassi, erano comunque alti rispetto agli acquisti precedenti. In questo bazar abbiamo ripreso a contrattare perché conoscevamo già i prezzi di alcuni oggetti e ci siamo accorti che i commercianti rincaravano di brutto. Su quasi tutto quello che ci interessava comprare sono scesi del 50% semplicemente rifiutando il prezzo iniziale e voltando le spalle… Su altri articoli invece non ci sono stati margini di trattativa, per esempio le scatoline di marmo comprate a Jaipur erano vendute a un prezzo maggiore e non scendevano più di tanto. quindi ci siamo sentiti ancora più soddisfatti dei buoni acquisti fatti in quella città.
Alla fine rientriamo in hotel verso le 17:00, ci cambiamo nello spogliatoio e prenotiamo il taxi per l’aeroporto per 600 rupie (8.85 Eu).
Al check-in scopriamo che le nostre valigie portano oltre 16 chili in più rispetto all’andata! Per fortuna il limite di 30 chili di Emirates non ci ha fatto temere costosi supplementi. A quanto pare noi siamo dimagriti ma qualcuno è decisamente ingrassato! 😉
Una volta entrati nel duty free pensiamo a come spendere le ultime 250 rupie (3.70 Eu) e subito ci vengono incontro due meravigliose sportine di Delhi per la cifra finale di 249.60 rupie, bingo!
Con questo acquisto pensiamo di aver sconfitto il dio dello shopping ma un paio di negozi ci attirano e ci seducono: non abbiamo dolci da portare in Italia e così finiamo per comprarne giusto un paio di chili!
Sono passate le 21:00, tra circa un’ora il nostro volo ci riporterà a casa e mi allontanerò ancora dall’India. Questa volta, però, con uno spirito diverso, non ostile come in passato.
Anche per questo viaggio non esprimerò giudizi né opinioni su miseria e ricchezza, sulla sporcizia e comportamenti che per noi restano incomprensibili. Non ho le competenze per fare analisi del genere, che per essere credibili dovrebbero andare oltre populismi e demagogie e fondarsi su una completa conoscenza di storia, cultura, tradizioni, religioni, lingue, usanze, costumi, politica, ecc… e io non ho la pretesa di conoscere l’India così bene solo perché l’ho visitata un paio di volte, io al massimo posso consigliare un ristorante 😉
Sono stato bene, ho trascorso giornate piene di cose da fare, da vedere, da provare e torno a casa con un’idea migliore rispetto al passato. 
Questa era la sfida del viaggio: cambiare idea, fare pace con l’India.
Pace fatta.

Note
In media le temperature durante il giorno sono state sui 34/36 gradi con punte di 38. Le minime non sono mai scese sotto i 24.
Tutti gli hotel sono stati prenotati su Booking.
Libro letto su Kindle: Bambino 44 di T.R. Smith.
Guide di riferimento: India del Nord della serie Lonely Planet  e India fai da me di Claudia Marforio.
Quest’ultima guida l’ho trovata particolarmente utile: essenziale, precisa e piena di consigli pratici che si sono rivelati molto preziosi. Mi è piaciuta, forse perché ha uno stile asciutto e concreto in linea con i miei diari di viaggio 🙂
E infine grazie al mio amico e collega-viaggiatore Paki, per le dritte che ha saputo darmi anche in questa occasione.
Come sempre spero che questo diario possa stimolare e aiutare altri viaggiatori, sono a disposizione in caso di domande

Diario di viaggio: Porto

Diario di viaggio a Porto
Il ponte Luiz I e la Ribeira.

Ponte lungo + voli low cost = week end all’estero. Questa formula funziona sempre e di luoghi da visitare, per fortuna, ce ne sono ancora tanti. Così, dopo Atene, Mosca, San Pietroburgo e gli USA, per l’ultimo viaggio dell’anno la scelta è caduta su Porto, in Portogallo. Un’ottima scelta.

05/12 Roma – Porto

Si parte con una formula collaudata: parcheggio Alta Quota con navetta per Ciampino (18 Euro) e biglietti Ryanair acquistati il 26/10 per 236 Euro. Per la prima volta sperimentiamo le novità tanto attese: biglietto elettronico su Passbook, posti assegnati e istruzioni se salire in coda o davanti. Era ora! Così hanno ridotto il caos a bordo e la corsa sfrenata per occupare posti ma alcuni non lo sanno e sgomitano lo stesso. Ci vuole pazienza, e tempo 😉
L’aereo parte alle 14:00 e arriva a destinazione dopo 2 ore e 40 minuti, sincronizziamo l’orologio sul fuso di Porto e recuperiamo subito un’ora. Seguiamo le indicazioni per la metro che ci porterà in centro e compriamo i biglietti agli sportelli automatici: a/r 4.20 Euro, direzione Estadio do Dragao. Da notare: tutte le linee fanno lo stesso percorso nella zona centrale della città nuova (nessuna passa per la città vecchia) e si diramano solo per raggiungere diverse destinazioni finali.
Dopo circa 30 minuti scendiamo alla fermata 24 de Agosto e raggiungiamo l’hotel The Artist Porto Hotel & Bistrô che si rivelerà un’ottima scelta.
Vi spiego perché: a parte la stanza enorme, arredata bene e pulitissima, l’aspetto migliore di questo hotel è tutto nell’idea meravigliosa che c’è alla base. La struttura, infatti, è adiacente a una scuola alberghiera ed è gestito dagli alunni, dall’accoglienza al ristorante!
Sicuramente c’è la supervisione degli insegnanti ma per buona parte del tempo i ragazzi vengono lasciati soli a lavorare, a rispondere al telefono e a interagire con i clienti, così vengono responsabilizzati e mettono in pratica ciò che imparano durante le lezioni. Sono stati sempre tutti molto gentili, professionali e disponibili. Questo è un concetto di scuola e formazione davvero utile, esemplare.
Dopo aver posato i bagagli facciamo un giro di orientamento e scopriamo che rua Santa Caterina, una delle principali vie dello shopping, è proprio dietro l’angolo. A noi i negozi interessano poco, quindi ci affacciamo un attimo per vedere lo storico Caffè Majestic e proseguiamo fino a piazza Joao I dove troviamo una pista di pattinaggio su ghiaccio con annesse rotture del coccige.
Sostiamo qualche minuto in raccoglimento per l’osso sacro e procediamo verso Avenida dos Aliados e Praca da Liberdade, la gigantesca piazza su cui affaccia la monumentale facciata del municipio, circondata da eleganti palazzi in stile liberty e neoclassico.
Passeggiamo tra rumorose installazioni di Natale e raggiungiamo la tensostruttura che ospita il Mercado de Natal dove è in corso una degustazione di vino. Sono ormai le 22:30 e preferiamo cenare, quindi rientriamo verso l’hotel perché all’andata avevamo avvistato l’interessante Café Santiago, a quanto pare una sorta di luogo di culto per gli amanti della Francesinha, un piatto che abbiamo notato anche in tanti altri locali.
Cos’è la francesinha? Un vero disastro! Questa specie di un toast è diventato una specialità locale (importata da un francese e riadattata) che potrebbe risultale letale a chi segue diete povere di grassi. L’aspetto è invitante, sembra una lasagna, ma basta tagliarla in due per scoprire che le due fette di pancarré sono imbottite con salsiccia, prosciutto, fettina di manzo, mortadella e formaggio fuso. Non solo, perché in cima a tutto c’è anche un bell’uovo al tegamino e altro formaggio! Il sandwich viene servito al centro di un piatto circondato da patatine fritte. Se amate il cibo-spazzatura vi sembrerà addirittura un piatto raffinato ma sinceramente a Porto troverete cose molto più buone e meno pasticciate 😉
Ci rifacciamo la bocca con un paio di birre, lasciamo sul banco 22 Euro e sulla strada del ritorno passiamo davanti Casa Guedes – un’istituzione locale, segnalata sulla guida e suggerita da amici – che purtroppo sarà chiuso per tutto il periodo del nostro soggiorno 🙁
La giornata è stata lunga. Ci sono 6 gradi e fa freddo, non ci resta che tornare a caricare le batterie: domani si va a vedere la Ribeira.

06/12 Porto

Si parte alla scoperta del centro storico ma prima abbiamo da fare un paio di tappe nei pressi del nostro hotel. La prima è presso la Capela das Almas, una chiesa barocca del settecento interamente rivestita di ceramiche azulejos che ci ricordano le magnifiche decorazioni di Piazza di Spagna a Siviglia; la seconda tappa è da non perdere: il Mercado do Bolhao il sabato chiude alle 13:00 e la domenica non apre, quindi la visita immediata è d’obbligo.
Lo raggiungiamo a piedi in pochi minuti, entriamo nella struttura in stile liberty semi-coperta e iniziamo a girare tra i banchi di carne, pesce frutta e verdura. Tra colori e profumi sempre affascinanti, facciamo i primi acquisti: strofinacci, cannella, cumino, curry e piri-piri, un mix di spezie piccanti per condire gli arrosti, già provato durante il viaggio a Lisbona nel 2009. In tutto spendiamo 8 Euro e all’uscita proseguiamo verso la chiesa e la torre dos Clerigos. Un po’ per la fila lentissima, un po’ per i lavori in corso nella chiesa decidiamo di non salire i 75 metri della torre e di entrare nella vicinissima libreria Libreria Lello e Irmão, considerata “una delle librerie più belle del mondo”.
Fondata nel 1869 è la seconda libreria più antica del Portogallo ed è celebre per lo scalone centrale e il lucernario. Da notare: si entra a scaglioni e all’interno non è possibile fare foto, proprio come in un museo.
A questo punto devo introdurre Marion e Tore, due amici che amano Porto e che ci hanno dato delle dritte da esperti. Se il consiglio di Casa Guedes per la prima cena non è andato a buon fine, per pranzo centriamo in pieno la Padaria Ribeiro Baixa. Siamo a pochi metri dalla libreria e lo troviamo un posto perfetto per fare rifornimento: frittelle di baccalà, bocconcini di gamberetti, polpette di vitello e un’empanada con formaggio e prosciutto. Per dolce non potevano mancare delle ottime pasteis de Nata (7.50 Euro).
Dopo la pausa riprendiamo a camminare visitando le adiacenti chiese do Carmo e dos Carmelitas. Anche qui barocco e azulejos la fanno da padrone, in più si aggiunge il rococò e una caratteristica particolare: le chiese sono affiancate ma separate tra loro perché una vecchia legge impediva alle chiese di avere una parete in comune, così in quel metro che le divide è stato ricavato lo spazio per la casa più stretta del Portogallo. Curioso, no? 🙂
Al termine della visita puntiamo decisi verso il fiume Douro e la parte bassa della città, almeno questa era l’intenzione… perché dopo pochi metri ci troviamo di fronte l’imponente palazzo del Centro Portoghese della Fotografia (ex prigione della città, con tanto di sbarre su tutte le finestre) che davanti all’ingresso ospita la tensostruttura della Fiera dell’Artigianato: come si fa a non entrare? Facciamo un giro veloce, giusto per dare un’occhiata agli stand degli artigiani e comprare delle splendide candele profumate a forma di iperrealistiche fragole e cupcake.
Il tempo passa, non possiamo tergiversare oltre e quindi imbocchiamo la prima discesa utile per raggiungere la celebre Ribeira, il cuore della vecchia Porto.
Dopo aver percorso discese, vicoli e scale torniamo a fermarci davanti la chiesa di São Francisco: siamo finalmente sulle sponde del Douro e da qui partiamo per camminare lungo tutto il Cais da Ribeira, il lungofiume caotico caratterizzato dai caffè, le bancarelle e dalle colorate facciate delle case più antiche della città che sono valse al quartiere il titolo di Patrimonio mondiale dell’Umanità dell’UNESCO. Da qui vediamo per la prima volta il ponte Luiz I, il più famoso dei sei ponti della città che caratterizzano la skyline di Porto. Costruito su progetto della scuola Eiffel, celebre costruttore dell’omonima torre a Parigi e ispiratore del ponte Trinity a San Pietroburgo, si riconosce per lo stile e si apprezza per l’audacia necessaria per costruire un ponte sospeso a 170 metri di altezza! Per oggi abbiamo in programma di attraversarlo solo al livello più basso, per raggiungere l’altra sponda, sede della città gemella Vila Nova de Gaia dove risiedono le principali aziende produttrici del Porto, tutte di proprietà straniera fin dalle origini.
La più famosa, la Sandeman, alle 17:00 è già chiusa, così ci dirigiamo verso la trecentenaria Taylor’s che però, dopo una scarpinata mostruosa in salita, chiude i battenti praticamente davanti a noi. Disdetta! Non possiamo fare altre che dietro-front ma sul cammino di ritorno ci imbattiamo nella cantina di Quevedo Port Wine e non ci pensiamo su due volte: entriamo e facciamo una rilassante pausa-ristoro. Tra botti e travi nere ci ritagliamo il nostro spazio su una panca condivisa con altri clienti, ascoltiamo il fado e ordiniamo salsiccia secca e crostini accompagnati da due qualità di Porto: Rosé e Ruby reserve (7.50 Euro).
Dopo aver accumulato un po’ di energie e di calore, torniamo in strada per iniziare un primo giro di souvenir: maglie, bicchieri shot, prese da forno, i magneti per la collezione e ovviamente non potevano mancare i mignon dei vini che stiamo assaggiando.
Ok, abbiamo rinviato al massimo questo momento ma è ora di cercare un ristorante e, soprattutto, tornare verso la città nuova il che, tradotto in sintesi, vuol dire fare il percorso inverso con salite che ti fanno sentire un ciclista sul Pordoi.
Ci tocca, tanto vale ammorbidire la risalita con un altro paio di visite: prima la chiesa di São Lourenço e una volta in cima ci premiamo con lo spettacolare panorama che offre il sagrato della Catedral da Sé.
Da qui capiamo ancora meglio la topografia cittadina e di come le distanze tra le varie attrazioni siano percepite diversamente in base all’altezza. Abbiamo di fronte la facciata imponente del Palacio da Bolsa, alla nostra sinistra il Palazzo Episcopale e a destra la stazione monumentale di Sao Bento: siamo nel cuore di Porto.
Sono le 21:00, facciamo ancora un po’ di shopping in centro e poi cerchiamo un locale con l’ausilio di TripAdvisor: la scelta ricade su Flor Dos Congregados.
Per raggiungerlo ci spostiamo, dal caos di Praca da Liberdade, in una stradina silenziosa che dà il nome al locale e una volta all’interno ci accoglie il proprietario Andre Barbosa che gestisce la sua casa de pasto con due collaboratori, tutti molto simpatici. Il locale è caratteristico e promette bene, l’arredamento è essenziale e ricercato: c’è la pietra viva e un pianoforte, i tavoli con gli sgabelli e un montacarichi con carrucola a mano da cui salgono e scendono le pietanze. Ci piace! Non abbiamo prenotato e ci tocca aspettare 30 minuti, quindi ne approfittiamo per bere un altro bicchiere di rosso e poi tocca finalmente a noi. Ci mostrano su una lavagnetta il menù con 2/3 portate, o carne o pesce. Noi ordiniamo un mix accompagnato da salumi e formaggi stagionati serviti su uno specchio. Dopo arriva la salsiccia di cinghiale e coniglio servita con patate e confettura di mele e cannella, e il calamaro fritto con insalata mista, molto diverso dai nostri “anellini”. Qui il calamaro era gigante e servito in tranci, tentacoli inclusi.
Paghiamo 30 Euro, scambiamo email e spero proprio che Andre legga questa recensione perché siamo stati bene nel suo locale. E vale anche per voi lettori-viaggiatori: Flor Dos Congregados è abbastanza nascosto, ma vale la pena cercarlo!
Bene, giornata finita. Ci restano ancora 15 minuti da camminare per tornare in hotel e pieni di tutte le cose che abbiamo visto e mangiato, ci perdiamo nel flusso della folla che di sabato riempie i locali, esce dai teatri pieni, si riversa nelle piazze: Porto è viva!

07/12 Porto

La giornata di ieri è stata intensa e ci ha fatto vedere le attrazioni principali della città, quindi per oggi abbiamo organizzato un’escursione al Parque da Cidade per vedere l‘Oceano. L’abbiamo fatto anche a Monterey in USA, e in Andalusia: se c’è da vedere il mare, noi ci andiamo.
Prendiamo la metro celeste direzione Matosinhos alle 12:40 e alle 13:05 siamo in spiaggia. La vista dell’oceano è sempre emozionante e la passeggiata è gradevole. La sabbia è bianca e sottile, il sole caldo e ci sono tanti velisti e surf: una bella domenica portoghese.
Più o meno a metà strada incrociamo l’enorme installazione dell’artista Janet Echelman che di notte sarà anche spettacolare ma di giorno lascia un po’ perplessi: sembra una coffa da pesca stesa ad asciugare.
Il lungomare è curato e attrezzatissimo: marciapiede enorme, pista ciclabile, attrezzi ginnici, campi da gioco. Anche qui troviamo un bel mercatino artigianale che offre un diversivo a chi si gode il relax al sole o sgranocchiando cibo nei tanti localini affacciati sul mare.
All’intersezione del lungomare con il limitare del parco c’è il Sea Life ma non entriamo perché dopo l’acquario di Monterey possiamo rinunciare alla vista di altri pesci che non siano cotti.
Procediamo verso il Castelo do Queijo, letteralmente “castello del formaggio” perché ha le fondamenta su rocce che ricordano il formaggio, l’ingresso costa solo 50 cents e l’esposizione non è granché ma vale la pena entrare per il panorama che si ammira dalla sommità.
Facciamo una pausa e poi riprendiamo il cammino verso la metro, non prima di aver fatto sosta in un mini-market per rifornimenti di pane, prosciutto, formaggio e patatine.
Il percorso calcolato prevede il rientro in metro fino a Trindade, da qui un cambio per prendere la linea che ci porterà di nuovo sulla sponda di Gaia ma stavolta passando sul piano superiore del ponte Luiz I.
La visuale da 170 metri di altezza è ovviamente diversa dal giorno precedente e scattiamo delle gran foto, poi cominciamo la discesa verso il lungofiume.
C’è anche una funicolare e il biglietto (5 Euro) include la visita alla cantina dove eravamo stati il giorno prima, quindi preferiamo andare a piedi e goderci altri scorci durante il percorso.
Anche stavolta siamo in ritardo per le cantine Calem e Sandeman ma l’offerta è talmente ampia e varia che non ci preoccupiamo, facciamo pochi metri e troviamo accoglienza nell’elegante Centro Multimedia Espaco Porto Cruz dove ordiniamo un doppio menù degustazione (5 Euro) che prevede 3 diverse qualità di Porto: White, Ruby reserve 8 anni e Tawny reserve 25 anni.
Restiamo fino a chiusura, verso le 20:00, siamo riposati e abbiamo abbastanza carburante per affrontare il freddo e tornare sulla sponda della Ribeira. Da qui inizia la ricerca del locale scelto per cena e con mappa, smartphone e tanta fiducia seguiamo il percorso del fiume in direzione del Ponte de Arrabida, superiamo il Museu do Vinho do Porto e finalmente troviamo la Taberna do Cais das Pedras.
Locale piccolo e molto caratteristico, si cena in “modalità tapas” come facevamo durante un secondo viaggio in Andalusia. Anche questo è stato un consiglio di Marion e Tore: mentre ordiniamo scambiamo messaggi e portiamo i loro saluti a Donna Isabella, la gentilissima proprietaria che ci fa scoprire i migliori piatti del suo ristorante e ci spiega come ordinare.
Sul tavolo c’è un foglio con il menù e i prezzi, il cliente sceglie e scrive la quantità che desidera. Noi abbiamo chiesto: chouriço e spiedino di salumi, datteri e peperoni arrostito al flambé al tavolo, insalata di polipo cipolle e paprika, frittelle e bocconcini di baccalà, salsiccia all’aglio sbriciolata in crosta di pane e per finire una bella fetta di torta con gelatina di limone su base crumble. Vino bianco e acqua, tutto era buono – con una menzione speciale per il “panino ripieno” e la torta finale – e il conto anche di più: 33 Euro. Ce l’hanno consigliato, lo consigliamo.
Poi arriva la nota dolente: come la sera prima siamo nella parte bassa e dobbiamo tornare in cima così, prima di uscire, sfruttiamo il Wi-Fi per calcolare il percorso di ritorno e una volta all’esterno imbocchiamo la prima salita che ci riporterà verso il centro della città nuova.
Ci aspettano 3 chilometri e 50 minuti di cammino nel cuore della notte, e strada facendo scambiamo le prime impressioni su Porto.
All’inizio del viaggio eravamo un po’ titubanti, non troppo sicuri della scelta, poi sul posto ci siamo subito ricreduti: la città è bella, ben organizzata, ricca di storia e cultura, vale la pena visitarla.
Mentre scambiamo questi pensieri la Rua da Restauracao che stiamo percorrendo fa di tutto per confermare queste impressioni: ci regala gli ultimi favolosi scorci notturni su questa Porto che ci ha sorpreso.
Porteremo con noi le immagini sempre diverse delle vedute dall’alto, le tantissime chiese, lo sciabordio del Douro e il volo dei gabbiani, le facciate dei palazzi eleganti o malinconicamente decadenti, il Porto gustato nella cantine di Gaia e il fado, la colonna sonora della città. Ricorderemo il cielo azzurro come le maioliche e la luna intrappolata nelle maglie d’acciaio del ponte Luiz I, che sovrasta il fiume e protegge tutte le storie della Ribeira. Arrivederci Porto!

Note
Hotel prenotato su Booking.
Guida di riferimento: Porto (II ed.) di Morellini Editore (unica in italiano)
Libro letto su Kindle: Il giorno dei morti. L’autunno del Commissario Ricciardi di Maurizio De Giovanni
Applicazione consigliata da usare offline: TripAdvisor Offline City Guides

Diario di viaggio: San Francisco, Las Vegas e grandi parchi USA

Monument Valley
Panoramica sulla Monument Valley

Torno negli USA. Sono passati otto anni dall’ultima volta, dal lungo viaggio percorso sulla Route 66 da Chicago fino a Los Angeles.
Al rientro in Italia portai con me la sensazione di un discorso lasciato in sospeso: fui entusiasta di attraversare tutta l’America, quella vera, rurale, fatta di piccoli paesi, strade deserte e persone semplici, ma rimasi molto deluso dal finale a Los Angeles. Volevo tornare on the road al più presto, ho dovuto aspettare un po’ ma alla fine ce l’ho fatta…

22/09 Roma – Charlotte – San Francisco

Prima di partire per gli Stati Uniti bisogna aderire al Visa Waiver Program per viaggiare senza visto. La procedura è molto meno complessa di quella necessaria per ottenere il visto per la Russia ma non posso descriverla nel dettaglio perché varia in base alla data di emissione del passaporto, quindi meglio consultare le informazioni ufficiali adatte al proprio profilo. Quello che è certo è che bisogna preparare l’ESTA, un modulo disponibile online che costa 14 dollari a persona (11.05 Euro).
I biglietti aerei per San Francisco li ho prenotati con due mesi di anticipo sul portale di American Express e sono venuti a costare 592 Euro a/r, tasse incluse. Si viaggia con US Airways, acquisita di recente da American Airlines e quindi, per quanto siano ancora in una fase di passaggio, si tratta a tutti gli effetti della stessa compagnia. Ancora più grande, ancora più efficiente.
L’inizio del viaggio è da brivido perché nonostante la partenza da casa programmata con largo anticipo, rallentamenti sul GRA direzione Fiumicino ci fanno arrivare al pelo in aeroporto. La navetta ci scarica al Terminal 3 ma è dal 5 che partono le compagnie americane e israeliane. Hanno un terminal riservato, che si raggiunge con un autobus, e che sembra Guantanamo con tutto quel filo spinato che lo circonda.
Anche le procedure d’imbarco sono diverse dalle solite, si fa un pre-check in dove gli addetti – più sadici del solito, considerato che è un lunedì mattina – ci rassicurano dicendo che probabilmente perderemo l’aereo perché non ci siamo presentati con le dovute tre ore di anticipo. Confesso: con tre ore di anticipo non sono mai andato da nessuna parte, eppure qualche aereo l’ho già preso 🙂
Alla fine facciamo check-in da soli da una colonnina e poi imbarchiamo il bagaglio (portata massima 23 chili, ne misuriamo solo 13 perché lo riempiremo per bene negli USA).
Il volo farà scalo a Charlotte, dura 10 ore e 45 minuti e fila via liscio grazie alla consolle individuale che ci fa vedere Gravity, Capitan Phillips e mezzo Godzilla. Solo mezzo perché è troppo brutto per proseguire, meglio passare al Trivial. A pranzo servono pollo thai con curry verde ed è superfluo descrivere com’è il pasto a bordo di un aereo, basta dire che in ospedale si mangia meglio.
Per fortuna c’è il catalogo di Skymall a rallegrarci: in pratica è un equivalente di Euronova in Italia, solo che vende cose più idiote – semmai fosse possibile – e più costose.
Una volta a Charlotte superiamo i controlli doganali con rilevamento ottico e digitale, ritiriamo il bagaglio, facciamo un nuovo check-in per la coincidenza e rimettiamo le valigie su un nastro per ritirarle poi a San Francisco, dove atterriamo dopo altre cinque ore di volo.
Siccome è tardi e dobbiamo raggiungere Millbrae senza perdere tempo, prendiamo un taxi che per 20 dollari (15.50 Euro) ci porta a destinazione… nell’hotel sbagliato! Siamo così stanchi da non notare neanche l’insegna: entriamo, chiediamo la nostra stanza ma ci rispondono che non ci sono prenotazioni per noi. Poi leggo la carta intestata dell’albergo e mi rendo conto che non è quello prenotato!
Per fortuna il nostro Millwood Inn & Suites era giusto di fronte quindi attraversiamo la strada, ci presentiamo alla reception giusta e dopo aver lasciato le valigie usciamo a sgranchire le gambe e fare un giro per questo piccolo sobborgo di San Francisco, ma resistiamo poco: dopo 26 ore svegli non vediamo l’ora di mettere le lancette indietro di nove ore e dormire. Buonanotte California!

23/09 San Francisco – Monterey – Carmel – Salinas (215 km)

Oggi inizia il vero viaggio, un lungo anello di strade da percorrere in macchina tra quattro stati americani, che inizierà e finirà all’aeroporto di San Francisco. Prima, però, ci aspetta una ricca colazione completa di tutto: uova, bacon, patate, waffel, cinnamom roll e donut.
L’hotel mette a disposizione un servizio shuttle gratuito per l’aeroporto e alle 10:30 siamo già diretti ai banchi dell’Alamo per ritirare la macchina prenotata. Dopo l’imprevisto del tassista della sera prima, arriva il secondo intoppo: l’addetta alla nostra pratica ci rivela che le informazioni riportate sul sito da cui abbiamo noleggiato l’auto erano inesatte e per avere la macchina richiesta dovevamo pagare un supplemento di 100 dollari.
Per 10 giorni di noleggio avevamo scelto un pacchetto da 322 Euro incluso GPS e un pieno di benzina, e avevamo selezionato una macchina spaziosa, con un bagagliaio capiente per le valigie. La simpatica Jessica non si assume la responsabilità dell’errore e insiste per il pagamento della differenza, noi non cediamo e andiamo fino in fondo con la nostra prenotazione. Quando arriviamo al ritiro troviamo la più simpatica Loretta a cui spiego soltanto che dovremmo girare in lungo e in largo e che avremmo bisogno di una buona macchina. Loretta ci dice che non erano disponibili auto medie ed era previsto un upgrade gratuito: ci piazza letteralmente a bordo di una gigantesca Chrisler 300 C con soli 16000 chilometri, che per i prossimi giorni sarà la nostra seconda casa. Con buona pace di Jessica, ritiriamo la macchina che eravamo sicuri di aver prenotato e non vediamo l’ora di metterla in moto.
Prendiamo confidenza con il navigatore Garmin e durante il tragitto verso Monterey iniziamo a scoprire tutti i congegni della macchina, a iniziare dal comodissimo cruise control.
Dopo due ore e mezza arriviamo all’acquario di Monterey e si materializza il terzo imprevisto: una volta parcheggiata, la macchina resta aperta. La chiudiamo con il telecomando ma se proviamo a tirare la maniglia si riapre. Dopo diverse scene comiche, intuiamo che è una questione di prossimità: se il telecomando è nei paraggi l’auto si riapre, se si allontana resta chiusa. Magnifico! Così nei prossimi giorni non sarà necessario preoccuparsi delle chiavi! L’auto si chiude con un pulsante sulla maniglia e il telecomando può rimanere nello zaino per tutto il viaggio: un pensiero in meno (perdere le chiavi prevede una penale di 250 dollari, ca.200 Euro).
L’ingresso all’acquario costa 40 dollari (31.50 Euro) a persona ma vale la pena fare una visita perché tutto è organizzato molto bene, nulla è lasciato al caso e ci sono padiglioni perfetti per famiglie e bambini, che possono interagire con gli ambienti e in qualche caso anche con i pesci, per esempio è possibile accarezzare le razze. L’acquario è da vedere però, sono sincero, se avete già visto quello di Genova o, meglio ancora, quello di Valencia, non resterete troppo colpiti dalle dimensioni e dal numero di specie ospitate.
Alle 18:00 usciamo e passeggiamo lungo il Fisherman’s Wharf. Il quartiere del porto è pieno di negozietti e ci fermiamo in un chiosco per comprare un gigantesco rotolo alla cannella che mangiamo nella piazza dedicata a John Steinbeck. Poi scendiamo in spiaggia a scattare qualche foto ai leoni marini prima di tornare alla macchina per dirigerci verso l’elegante Carmel by the Sea.
Le due località sono molto vicine e la strada da percorrere attraversa un bosco. Eravamo partiti da poco quando abbiamo visto improvvisamente un cervo bellissimo che brucava tranquillo alcuni germogli in un giardino privato.
Carmel è molto piccola, abitata da ricchi americani che l’hanno eletta a buen retiro. Sulla strada principale si incontrano sofisticati bohèmien e reduci del ’68 che indossano ancora maglie e calze psichedeliche, e pensano di essere giovani per tutta la vita. Non ti dico ora che in California l’erba è libera…
Lasciamo la strada dello shopping e puntiamo dritti verso l’oceano. Dal parcheggio al mare ci separa solo una gigantesca duna di sabbia bianca e fina, la duna più famosa del posto. L’affrontiamo in discesa mentre il sole tramonta, i piedi affondano con tutte le scarpe e siamo circondati al massimo da dieci persone in uno spazio enorme. Ogni onda che porta l’oceano ha una lunghezza quasi pari a quella della spiaggia, e quando si rompe lo fa con un fragore assordante. Ci sono tanti cartelli che indicano quanto sia pericoloso fare il bagno qui, per le correnti, la temperatura dell’acqua e le insidie del fondale. Non ci pensiamo neppure a tentare un tuffo, però scattiamo delle gran foto e registriamo il rumore del mare così ce lo porteremo dietro per un po’…
La prima giornata volge al termine, come impatto iniziale è stato abbastanza impegnativo e resta da raggiungere il nostro Super 8 a Salinas, dove alla reception troviamo un ragazzo molto gentile che ci consiglia un ristorante secondo lui buono, il migliore del posto per mangiare il piatto nazionale – parliamo ovviamente di hamburger. Anche TripAdvisor ci dice che è al terzo posto su 238 locali di Salinas, quindi non ci resta che andare da In-N-Out Burger. Sul posto ci rendiamo conto che è un McDonald’s più casalingo, perché gli hamburger e gli ingredienti sono freschi, ma pur sempre di catena si tratta. Solo che è tardi, siamo stanchi e Salinas non ha l’aria di essere troppo movimentata, quindi superiamo la delusione, ci dichiariamo anche noi fan accaniti di questo magnifico “ristorante” e andiamo fino in fondo: ordiniamo due double cheesburger, un cheesburger, una patata fritta e due bibite per 13.53 dollari (10.50 Eu). Non male ma neppure niente di memorabile.
Finisce così la prima lunga giornata on the road, non mi sembra vero. Mi sembra di essere tornato indietro nel tempo, sono a mio agio sulle strade americane e sento che andrà tutto bene.

24/09 Salinas – Sequoia – Tehachapi (670 km)

Oggi visiteremo il Sequoia National Park. In Italia abbiamo programmato un itinerario di massima, completo di tutte le tappe, i chilometri e i tempi di percorrenza previsti. Sono indicazioni utili per avere dei riferimenti ma che non contemplano imprevisti, modifiche del percorso, decisioni da prendere sul posto e altre variabili. Come ad esempio una strada chiusa per lavori, che ci costringe a una deviazione che al termine della giornata ci avrà allungato il percorso programmato di quasi 100 chilometri! Gli aspetti positivi di questa deviazione? Passiamo per una strada di montagna piena di scoiattoli, che ci offre degli scorci meravigliosi e ci fa scoprire il lago San Luis che altrimenti non avremmo visto.
Torniamo a puntare sulla nostra meta: dopo circa 5 ore dalla partenza il lago Kaweah ci introduce al parco nazionale dei grandi alberi. Attraversiamo Three River e arriviamo all’ingresso sud di Ash Mountain dove acquistiamo il pass annuale dei parchi USA. Costa 80 dollari (63 Euro) e permette di accedere per un anno a oltre 2000 siti naturalistici americani. L’ingresso è autorizzato per una macchina che porta fino a quattro adulti e se calcolate che in media entrare in un parco con l’auto costa sui 20/25 dollari, la convenienza di questo pass è altissima. Si può comprare sul posto, in qualsiasi parco, oppure sul sito ufficiale dei parchi.
Raggiungiamo il Visitor Center e scegliamo il nostro percorso che ci porterà a incontrare la star del parco: il Generale Sherman Tree, l’albero più grande del mondo.
Arriviamo al parcheggio, prendiamo gli zaini e percorriamo il sentiero che conduce nel cuore della Giant Forest. Ci rendiamo conto che mai nome fu più azzeccato: le dimensioni dei tronchi e le altezze raggiunte dalle fronde sono davvero straordinarie. Certo, sapevo che erano enormi ma non pensavo fossero così grandi.
Ma a quanto pare le sorprese della giornata non sono finite, perché scorgiamo un movimento in lontananza. Mi fermo, metto a fuoco un grande tronco abbattuto e stavolta sono sicuro: qualcosa si muove! Voglio dire, ci ho messo un po’, non è che tutti i giorni vedi mamma orsa che porta a spasso due cuccioli!
Giocano e cercano cibo, ma quel che è più incredibile è che si dirigono proprio dove dobbiamo andare noi. Tanto che a un certo punto scattiamo foto piuttosto ravvicinate e forse azzardiamo un po’ troppo: la distanza è minima, sicuramente sotto la soglia di sicurezza, e mentre facciamo il selfie dell’anno mamma orsa fa uno scatto verso di noi e ci riporta all’ordine in un attimo. Per fortuna ce l’aveva con uno dei cuccioli, però vale la pena ascoltare l’avvertimento e rimettere le giuste distanze tra noi e la natura selvaggia: qui gli ospiti, quelli fuori posto, siamo noi.
Lasciamo gli orsi a giocare e ad arrampicarsi indisturbati sugli alberi e arriviamo sotto la grande sequoia. La base è così larga che sembra finta, chissà quante ne ha viste in oltre 2000 anni di vita.
Sta facendo buio e non è il caso di farsi sorprendere sul sentiero, quindi torniamo verso la macchina e riprendiamo la 198 che ci porterà all’uscita. Il sole che tramonta incendia il picco del Moro e tutti i pendii ricoperti di alberi enormi, alcuni dei quali in pieno foliage: ma come si fa a descrivere uno spettacolo di luci e colori che è indescrivibile? 😉
In strada ci fermiamo per il primo pieno di benzina e il gestore ci rivela che possiamo scegliere la benzina qualità 87 ottani, la più economica. Molto onesto, dice che tanto sono tutte uguali e che i carburanti più raffinati (89 e 91 ottani) servono solo a fregare soldi a quelli che hanno Mercedes e BMW. I prezzi della benzina variano, c’è tanta scelta e ognuno applica il suo listino. Nei pressi dei parchi costa tanto perché all’interno ci sono pochi distributori oppure non ce ne sono proprio, quindi meglio calcolare distanze e consumi, e fare rifornimento nei tempi giusti. Il carburante si vende a galloni (1=3.859 litri).
Spendiamo 54.35 dollari (43 Euro) per i nostri primi 14.88 galloni e andiamo diretti verso il Ranch Motel di Tehachapi, dove arriviamo alle 23. Il paese è deserto e troviamo tutto chiuso, anche l’hotel. Bussiamo più volte in uno stanzino semi buio, dove c’è una guardiola chiusa con lucchetti. L’atmosfera è spettrale, dopo qualche minuto sentiamo sferragliare i chiavistelli e lo sportello si apre con il classico cigolio da thriller: un omone farfuglia qualcosa mentre cerca la prenotazione, l’abbiamo evidentemente svegliato. La pratica è veloce e quasi imbarazzante perché lo scambio di parole è essenziale, quindi portiamo la macchina sul retro e dopo aver lasciato le valigie in una stanza modesta, che sapeva di muffa, usciamo a caccia di cibo affamati come lupi.
C’è poco da scegliere: l’unico posto aperto, ancora per pochi minuti, è un Burger King. Siamo costretti a ordinare due bacon cheeseburger che risultano poi abbastanza dignitosi, ma forse è la fame a farci sembrare tutto più buono. Spendiamo 12 dollari (9.50 Eu) e rientriamo nel nostro motel per una notte da incubo: all’atmosfera tetra e isolata, nel cuore della notte si aggiungerà più volte la sirena dei treni di passaggio. Il silenzio assoluto viene interrotto improvvisamente da quelle che riconosco chiaramente come le trombe dell’Apocalisse: quando arriva il mattino? 😉

25/09 Tehachapi – Death Valley – Las Vegas (492 km)

Che ironia sopravvivere a una nottataccia per andare l’indomani nella Valle della Morte. Il programma della giornata, a parte la sopravvivenza, prevede il raggiungimento di Las Vegas proprio attraversando la Death Valley.
Ma prima c’è da fare colazione, quindi usciamo e scopriamo che con la luce Tehachapi non è così male: è molto curata, ci sono bei negozi, c’è la ferrovia maledetta (l’avevamo solo immaginata) e soprattutto c’è Kohnen’s Country Bakery, un forno-gastronomia che ricorderemo a lungo.
Prendiamo succo d’arancia, muffin al cioccolato e zucca, un cookie al cioccolato e una sfogliata danese ripiena di pasta di mandorle. Paghiamo 7.50 dollari (6 Eu) e facciamo colazione all’esterno, sotto un bel sole caldo che ci mette di buonumore. Tutto è così delizioso che ne approfittiamo per portare via anche un paio di sandwich e un pretzel, saranno il nostro pranzo al sacco nel mezzo del deserto.
Alle 10:15 partiamo e decidiamo di raggiungere la Death Valley su un tragitto diverso dalle highway, quindi ci ritroviamo a percorrere stradine che dalla campagna ci trasferiscono nel mezzo di paesaggi lunari. Per centinaia di chilometri incontriamo solo arbusti, sabbia, rocce e i curiosi joshua tree.
Ma anche in queste condizioni, le sorprese non mancano: incrociamo più volte i binari di una ferrovia nel mezzo del nulla, ci sono spazi attrezzati per pic-nic e addirittura un’inspiegabile pista ciclabile! Poi, a ridosso di una duna, si apre lo spettacolo improvviso della bianchissima Searles Valley che ospita l’omonimo lago e la città mineraria di Trona.
L’ultimo tratto della Trona Road è sterrato per qualche chilometro e a complicarci le cose incontriamo una piccola tempesta di sabbia che riduce di molto la visibilità. Il paesaggio diventa ancora più arido, il deserto del Mojave si è fuso con la Death Valley quando ci separano ancora 52 miglia da Furnace Creek.
In località Stovepipe Wells un cartello ci informa che siamo a zero metri sul livello del mare e subito dopo facciamo una breve sosta per ammirare le Mesquite Flat Sand Dunes. Pausa breve perché fuori dalla macchina ci sono 44 gradi e dopo le foto di rito scatta la prima bustina di sali minerali. Se visitate queste zone nelle ore più calde portate con voi tanta acqua, frutta, integratori e un copricapo: con i colpi di calore non si scherza.
All’interno del Visitor Center di Furnace Creek una lavagnetta informa che da Aprile la Death Valley ha fatto due vittime per il caldo, in attesa di nuovi aggiornamenti. Un metodo ironico per mettere tutti in guardia, invitando esplicitamente a “non essere la prossima vittima”.
Noi non ci pensiamo neppure a incrementare la statistica, mostriamo il nostro pass a un ranger e ritiriamo il tagliando dei visitatori per girare liberamente nel parco.
Prima di ripartire mangiamo i panini comprati a Tehachapi (uno con arrosto di tacchino, mostarda e pomodoro, l’altro con rostbeef affumicato, insalata, pomodoro e mayonaise) e poi ci dirigiamo verso Zabriskie Point che si trova già sulla strada che ci porterà a Las Vegas.
Il tragitto che separa il parcheggio dal belvedere di Zabriskie Point è breve, ma il caldo e la salita lo fanno sembrare irraggiungibile. Il panorama che ci attende in cima vale l’allontanamento provvisorio dal bocchettone dell’aria condizionata.
La depressione più grande degli Stati Uniti – che dà anche il titolo al capolavoro di Michelangelo Antonioni – si mostra in tutto il suo splendore. Le formazioni rocciose sono corrugate, poi diventano declivi più dolci fino a distendersi in un piatto deserto, aspro e duro. I colori cambiano come i livelli: si va dal bianco accesso fino al giallo ocra. Poi durante il giorno ci pensa l’inclinazione del sole a dosare le varie sfumature di tonalità.
Dopo le foto rituali in un luogo così potente e silenzioso, riprendiamo la marcia verso la più grande oasi del mondo: Las Vegas. Prima, però, incontriamo la maledizione di Walmart che ci ipnotizza, ci costringe a parcheggiare e a entrare. Come previsto c’è una mole spaventosa di merci e ne approfittiamo per fare qualche acquisto: adattatore elettrico, dentifricio con mascherine sbiancanti, penne con puntatore led, Pringles di gusti mai assaggiati, dolci per colazione e tre taniche d’acqua. Compriamo anche i primi souvenir per Halloween, una festa americana che per come la conosciamo noi consiste in una notte in discoteca vestiti come se fosse carnevale, ma per come la vivono loro la durata e i preparativi richiedono tempi del tutto simili a quelli impiegati per festeggiare decorosamente il Natale. Alla fine perdiamo un’ora e mezza che ci fa raggiungere l’hotel Mirage solo alle 20:00.
Ci rilassiamo un po’, facciamo una doccia e alle 23:00 siamo sulla Strip, qui non avremo problemi di locali chiusi: Las Vegas non dorme mai!
Cerchiamo un posto dove mangiare, entriamo nel nuovo quartire Linq e ci sediamo al bancone del Tilted Kilt dove ordiniamo BBQ Bacon Cheeseburger (applewood smoked bacon, cheddar cheese, cipolle croccanti e salsa Guinness BBQ) e un California Burger (hamburger di tacchino con swiss cheese, guacamole, insalata, pomodoro e cipolle). Aggiungiamo due birre grandi e spendiamo 42.79 dollari (34 Euro). Da notare: il bacon cheeseburger mangiato qui resterà il migliore di tutto il viaggio.
Dopo una cena così importante e raffinata, bisogna camminare prima di rientrare in hotel: arriviamo fino al Paris, dove da buoni amanti della capitale francese apprezziamo le riproduzioni della Torre Eiffel e degli Champs Eliseé, poi attraversiamo per ammirare la spettacolare facciata del Bellagio ed entriamo nelle sale dell’adiacente Caesar Palace. Siamo così stanchi che non ci resta neanche un po’ di fortuna da consumare alle slot, così dopo un paio di tentativi rinunciamo: sono le 03:00 e anche se nelle sale da gioco la cognizione del tempo è relativa, noi sappiamo perfettamente che è ora di dormire!

26/09 Las Vegas

Sveglia alle 09:30. Anche se nella stanza e nei corridoi del Mirage sembra di essere al Polo Sud, fuori fa un caldo di morte. Usciamo per fare colazione da Denny’s e tra un foto e l’altra arriviamo che sono le 12:30. Meglio così, perché la colazione che ordiniamo ha tutto l’aspetto di un pranzo. Scegliamo un paio di cose ma non calcoliamo che servono tutto con alcune portate “di accompagnamento”, quindi ci ritroviamo con il tavolo pieno di piatti: uova strapazzate con cheddar, bacon, salsicce, pane imburrato, giganteschi pancake con sciroppo d’acero e altri ricoperti di cioccolato e burro d’arachidi. A un certo punto, mentre continuano a portare altra roba chiediamo se avessero sbagliato la comanda ma ci confermano tutto: “In questo Paese le porzioni sono abbondanti”. Per mandare giù tutta quella roba beviamo succo d’arancia e uno smoothies, frullato di frutta fresca con banana, fragola e yogurt.
Ok, detto tra noi: l’America è grande e anche a tavola tende a strafare. L’abbondanza delle porzioni è esagerata praticamente ovunque, non solo da Denny’s, e spesso è uno spreco immenso di cibo. Ordinate con moderazione 😉
Strapieni, rinunciamo al brownie fudge con gelato e andiamo alla cassa per pagare 26.85 dollari (21 Eu).
Dopo inizia uno shopping isterico per fare incetta di souvenir in buona parte idioti. Compriamo slot-machine distribuisci caramelle, accendini e portachiavi a forma di fiche, temperamatite, mug, calamite e t-shirt.
Al rientro ci fermiamo al Bellagio per chiedere info sugli orari della cena e sullo spettacolo delle fontane danzanti (ogni mezz’ora fino alle 24). Dopo ci prendiamo qualche ora di relax in piscina, giusto il tempo di un tuffo e un Margarita frozen (13 dollari – 10 Eu). Il cielo non promette nulla di buono, l’aria è satura e calda e un avviso sul cellulare ci conferma una tempesta in arrivo. Dalla stanza assistiamo allo spettacolo dei fulmini che si abbattono sulla città, mentre si scatena un acquazzone violento che però dura poco e rinfresca l’aria, perfetto per farci godere la seconda parte della giornata.
Alle 19:30 siamo di nuovo fuori, vediamo lo show del vulcano del Mirage (ogni 30 minuti fino alle 23) e poi visitiamo il Venetian, trionfo del kitsch con tanto di gondole, canali e cielo azzurro. Tutto all’interno dell’hotel/casino.
Raggiungiamo ancora il Bellagio per cenare con lo splendido buffet caldo, di solito c’è una gran fila ma noi arriviamo alle 21:00 e troviamo poche persone. La spiegazione c’è: l’accesso chiude alle 22:00 e la cucina è aperta fino alle 23:00.
Il buffet è meraviglioso, noi scegliamo la formula gourmet per 86.46 dollari (68 Euro) e prendiamo: manzo Wellington in crosta di pane, manzo Kobe, costine d’agnello e carré di vitello. Poi passiamo all’oriente con noodle, sushi e due tipi di crostacei crudi: king e snow crab. Dopo il bis di Kobe, davvero una carne dal sapore unico, ci riforniamo di un quantitativo spaventoso di dolci. La curva glicemica schizza alle stelle ma pazienza, è impossibile rifiutare. I migliori? Le crostatine al lime, la mousse di gianduia su biscotto e la crème brûlée. Ma tutto il menù è stato di ottima qualità, se passate dal Bellagio… 😉
I vizi a tavola impongono marce forzate per tutta la notte e non sarà un problema trovare dove andare: prima visitiamo il New York New York con la sua montagna russa che precipita dai grattacieli, poi passiamo al fantasioso Excalibur e terminiamo con un giro in monorotaia fino alla trionfale piramide nera del Luxor.
Decidiamo di rientrare a piedi in hotel, dove arriviamo intorno alle 02:00 con le energie residue per qualche giro di roulette. Ma si vede che al gioco non siamo fortunati, meglio dormirci su e recuperare energie: domani si torna on the road, direzione Flagstaff.
Ma ci arriveremo in un modo particolare, molto particolare… 😉

27/09 Las Vegas – Hoover Dam – Route 66 – Flagstaff (457 km)

Sveglia alle 09:30, colazione in camera con lo spesone fatto da Walmart.
Prepariamo la valigia, facciamo il check-out e qui c’è da aprire una piccola parentesi: il Mirage usa proporre una tariffa per la stanza a cui va aggiunta una quota fissa per “servizi accessori” e una percentuale (variabile) per le tasse locali. Prima di partire avevo letto tante recensioni che mettevano in guardia al momento del check-out, perché l’hotel aggiungeva servizi alla rinfusa che gonfiavano il conto. Non è vero: il Mirage informa ampiamente come si compone il prezzo finale e spiega nel dettaglio cos’è la Daily Resort Fee, vale a dire i benedetti servizi accessori. Per esempio nel nostro caso consistevano in 25 dollari per notte e includevano il wi-fi, l’accesso al Fitness Center, il quotidiano, fotocopie, fax, chiamate locali illimitate e altro. Si fanno pagare queste cose, indipendentemente se le usate o no. Quindi, per evitare casini o contestazioni, al momento di prenotare aggiungete subito 25 dollari per notte alla tariffa base e non se ne parla più: troverete così la somma che pagherete realmente in hotel, senza sorprese.
Dopo due giorni di riposo in garage riprendiamo la nostra Ciucciarella, ribattezzata così per i servizi di trasporto e soma ma soprattutto per i consumi: 13km/L.
Facciamo pochi chilometri e ci fermiamo al Premium Outlet che ci avevano consigliato amici dall’Italia. Non abbiamo molto tempo a disposizione ma in un’ora e mezza riusciamo a comprare scarpe, t-shirt, maglioni e infradito da Nike e GAP, spendendo solo 57 dollari (44 Eu). Le Nike sono costate 27.99 dollari, cifra già bassa. I prezzi di tutto il resto sfioravano il ridicolo. Peccato non poter restare di più.
Raggiungiamo la prima tappa della giornata: la Hoover Dam, un’imponente diga alta 220 metri sul fiume Colorado. Costruita negli anni ’30 segna il confine tra Nevada e Arizona e praticamente tiene accesa Las Vegas con la sua importante centrale elettrica.
Elegante, in stile Art déco, si può visitare da entrambi i lati ma quello più spettacolare è la passerella pedonale sul Mike O’Callanghan-Pat Tillman Memorial Bridge. Questo ponte è stato costruito nel 2009, quindi rispetto alla mia precedente visita ho scoperto un lato della diga che non conoscevo. E ho anche scoperto una nuova strada per entrare in Arizona.
Qui inizia il nostro percorso alternativo: invece di prendere l’highway per Flagstaff, all’altezza di Kingman imbocchiamo la mitica Route 66.
Per me è come fare un salto indietro nel tempo e indosso la maglietta strategica da nerd Back to the future per scattare le foto da condividere con gli amici. Il set che ho in mente è il general store di Hackberry che si è confermato un’ottima scenografia per le foto tra macchine arrugginite e pompe di benzina d’epoca, anche se purtroppo lo troviamo chiuso e non possiamo lasciare traccia del nostro passaggio. Nella piazzola dello store incontriamo dei camperisti francesi che stavano ripercorrendo i luoghi celebrati nel film Baghdad café, vagavano a caso e ci hanno chiesto informazioni che non siamo riusciti a dare perché le guide non citavano il film e i telefoni erano inutilizzabili. Anche questo episodio mi ha ricordato il viaggio di otto anni fa, quando sulla mother road facevamo incontri stravaganti.
Riprendiamo la marcia e a Kingman entriamo in un altro store, dove compriamo qualche souvenir marchiato Route 66 e da qui abbandoniamo la mitica strada per procedere sulla più veloce I-40 fino a destinazione.
Arriviamo con il buio, piove e l’impatto con L Motel è tragicomico, soprattutto perché dopo i lussi del Mirage è traumatico il ridimensionamento offerto dal motel di strada. La stanza sembra uscita da un horror di quarta categoria, piena di ragnatele e con una strana puzza di elefante. Lasciamo i bagagli e ci rimettiamo in strada per raggiungere il Galaxy Diner (CHIUSO, agg. 01/20), locale in cui cenai durante il soggiorno del 2006. Entriamo e questa volta non sono solo io a tornare indietro in tempo, perché l’intero locale è di un’altra epoca e, alla scenografia naturale offerta dal posto, si aggiunge la serata rockabilly a imporre un’ulteriore immersione nel meglio degli anni ’50. Sedute in vinilpelle bianca e rossa, pavimento a scacchiera, neon d’atmosfera e nella seconda sala un cantante un po’ nostalgico che alternava brani country al calypso. Ordiniamo il piatto “della zia” a base di pollo fritto, pannocchia, purè di patate e toast imburrati, e non poteva mancare il classico bacon cheeseburger.
È tardi, siamo stanchi, fa freddo (ci sono 10 gradi) e non ce la sentiamo di ordinare uno dei 100 ricchissimi e coloratissimi milkshake della casa. Mentre paghiamo il conto di 25.48 dollari (20 Eu), prendiamo anche un ultimo souvenir della Route, un altro salvadanaio da riempire per un prossimo viaggio.
Rientriamo nel motel da incubo, teniamo le luci spente per vedere il meno possibile e accendiamo l’asciugacapelli per riscaldare un po’ il nostro primo assaggio d’inverno. Ma è il pensiero per il giorno dopo che ci scalda ancora di più: è il momento del Grand Canyon.

28/09 Flagstaff – Grand Canyon – Page (365 km)

Rinunciamo volentieri alla colazione del nostro modesto motel, preferiamo sgranocchiare un paio di cookies e brownie comprati nei giorni precedenti. Siamo più mattinieri del solito e abbiamo una certa fretta di abbandonare quel postaccio, nonostante la nuova notifica ricevuta del National Weather Service che informava di pericolosi allagamenti improvvisi all’interno del Grand Canyon a causa di violenti temporali. Qualsiasi cosa ci sembra meglio che restare, anche il diluvio universale.
Lasciamo Flagstaff mentre piove ma durante il tragitto rispunta il sole e tutto il resto della giornata resterà solo un po’ nuvoloso. Facciamo rifornimento in una stazione di servizio lungo il percorso (16.60 galloni per 60 dollari – 47 Euro) e qui compriamo le ultime memorabilia della 66 e le prime del Grand Canyon.
Riprendiamo la strada verso Grand Canyon Village e dopo una sosta al Visitor Center per pianificare l’escursione, usciamo e cartina alla mano iniziamo a percorrere i 40 chilometri interni al parco lungo la South Rim, sulla 64.
Da qui si costeggia la sommità del Grand Canyon e si incontrano diversi punti di sosta da cui ammirare panorami imponenti. Si può anche decidere di seguire sentieri a piedi, dopo aver valutato il grado di difficoltà, la distanza e il tempo.
La vista è spettacolare ovunque ma Moran Point ha catturato maggiormente la nostra attenzione rispetto a Lipan Point e Navajo Point, che restano comunque da vedere.
Segnalo poi in particolare il Grandview Point perché ci ha dato la possibilità di fare una bella escursione a piedi, ancora più vicini al precipizio dove abbiamo fotografato le aquile in volo e provato l’ebbrezza degli strapiombi vertiginosi.
Le rovine Tusayan non sono state particolarmente interessanti, tranne per i cartelli sparsi che avvisavano di stare attenti ai serpenti a sonagli. Se avete poco tempo a disposizione, saltatele senza rimpianti.
Arrivati a Desertview troviamo l’ultimo belvedere da visitare e continuiamo la nostra marcia verso Page sul Lake Powell.
Procediamo lungo la 64 dove incontriamo un viewpoint esterno al parco e gestito dai navajo (siamo in piena Navajo Nation), ci fermiamo per le ultime foto al Colorado River – che qui si rivela meglio rispetto alle soste precedenti – e acquistiamo alcuni braccialetti fatti a mano dall’anziana della tribù. Ci spiega che l’attività è a conduzione famigliare e che tutti contribuiscono così al sostegno della tribù, ogni articolo porta il nome di chi l’ha fatto e così ripartiscono i guadagni in modo equilibrato. Come si fa a non comprare alcuni manufatti con nomi diversi? 😉
Arriviamo al Best Western Plus at Lake Powell alle 20:00, cerchiamo su TripAdvisor un locale dove mangiare e la scelta ricade su The Dam Bar & Grill che però alle 21:00 è già chiuso. Una commessa ci dirotta verso El Tapatio, che si rivela molto buono. Il locale è davvero bello, tutto decorato con scene di vita messicana dipinte con vivaci colori. Anche i piatti sono belli da vedere e coloratissimi, noi abbiamo scelto un bel Combo for two con petto di pollo, bistecca alla griglia, code di gamberi arrotolate nel bacon fritto con green and red bell pepper. Tutto accompagnato da riso, fagioli, guacamole e sour cream. Ci abbiamo aggiunto due belle birre ghiacciate per un totale di 49 dollari (38 Eu), niente male gringos!

29/09 Page – Monument Valley – Page (425 km)

Il secondo giorno a Page prevede una escursione alla Monument Valley, lo scenario preferito dal regista John Ford per i suoi western con John Wayne. Prima di iniziare il tragitto di 200 chilometri, ci carichiamo con una ricca colazione: muffin alla banana e semi di papavero, donuts con marmellata alla pesca e ciliegia, pancake con sciroppo d’acero e l’immancabile piatto salato con patate al forno speziate, salsicce e uova strapazzate. Poi, tanto per gradire, aggiungiamo frutta caramellata, succo d’arancia e qualche mela da sgranocchiare durante il viaggio.
Alle 11:30 impostiamo il navigatore sull’ingresso principale che corrisponde a Monument Valley Navajo Tribal Park, dove arriviamo dopo due ore e mezza. L’ingresso per auto che trasportano fino a 4 persone costa 20 dollari (15.50 Eu) e non è incluso nella tessera annuale dei parchi, perché qui la gestione non è federale ma è un bene Navajo. Il biglietto permette l’accesso a una strada circolare panoramica lunga 17 miglia che si può percorrere con la propria auto oppure sui fuoristrada guidati dai navajo (75 dollari – 60 Eu).
Noi decidiamo di sfidare l’avventura e ci rendiamo conto che di avventura si tratta perché la strada è completamente sterrata, con alcuni tratti abbastanza difficili da percorrere soprattutto se non si guida un SUV. La nostra Ciucciarella, bassina, soffre un po’ e un paio di volte temo per la coppa dell’olio: avete presente Angelo Bernabucci nel film Compagni di scuola? Ecco, mentre guido sul tratturo mi trasformo più o meno in una cosa del genere
Ormai siamo in ballo, indietro non si torna e quindi proseguiamo lungo la pista di terra rossa che caratterizza l’intero complesso, seguiamo la spartana piantina che ti rilasciano all’ingresso e ci fermiamo nei punti di sosta tra mesa e butte. Alcune rocce, modellate dal vento e levigate dalla sabbia, prendono i nomi dall’immaginario perché assomigliano ad animali, cose, parti anatomiche, persone. Per cui ammiriamo l’elefante, il cammello, il sottomarino, il pollice, le tre sorelle e altre rocce dai nomi suggestivi che richiamano alla memoria forme ben precise.
Una deviazione dal percorso anulare porta al belvedere dell’Artist Point, da non perdere perché permette una vista dall’alto. Le migliori foto le abbiamo scattate qui e dal Visitor Center. A proposito di Visitor Center: anche qui ci sono molti souvenir ma costano di più rispetto agli altri parchi e se ne possono trovare altrove.
Alle ore 16:30 torniamo verso Page e già sappiamo dove ceneremo: ci aspetta il Dam Bar & Grill dove stavolta ci presentiamo in netto anticipo, anche perché affianco ha uno store molto fornito dove facciamo qualche spesa prima di sederci a tavola.
Siamo affascinati dal Dam Burger, presentato nel menù come dannatamente grande. Non ce lo siamo fatti sfuggire e l’abbiamo accompagnato con un bel pollo fritto con salsa ranch e sour cream. Com’era il Dam? Imbarazzante: una polpetta di carne da una libbra, cioè mezzo chilo (!), fusa con cheddar cheese, bacon, insalata, pomodori e anelli di cipolla fritti. Tutto servito con le immancabili patatine. Con due Bud light, tanto per mettere a tavola qualcosa con una parvenza dietetica almeno nel nome, paghiamo 39.84 dollari (31.40 Eu) e rientriamo a piedi verso l’albergo.
Due note in chiusura di giornata, la prima: il Dam sbaglia l’addebito sulla carta e mi ritrovo un conto maggiorato di 25 dollari. Gli scrivo dal sito, mi rispondono, si scusano e nel giro di una settimana rimettono tutto a posto. La seconda: in due giorni di Lake Powell non abbiamo visto il Lake Powell! È un lago artificiale e a quanto pare si nasconde bene, vediamo se domani si rivelerà prima della partenza.

30/09 Page – Zion – Alamo (475 km)

Replichiamo la ricca colazione del giorno prima per fare il pieno: sarà una lunga giornata che ci porterà ad Alamo. Prima però faremo visita allo Zion National Park.
Come previsto, in uscita da Page vediamo finalmente il Lake Powell e ci fermiamo a scattare un paio di foto sulla diga del Glen Canyon che crea il bacino. In pratica hanno riempito d’acqua un canyon per cui il lago ha coste frastagliate e sembra più un fiume immobile.
Procediamo spediti fino allo Zion, ci fermiamo solo per fare rifornimento a Kanab e ripartiamo sgranocchiando delle Pringles al BBQ. E sì, durante il viaggio abbiamo comprato tante schifezze per gli spuntini di strada e ci siamo impegnati per assaggiare snack salati di forme, colori e dimensioni diverse. Gli americani hanno una scelta sterminata in termini di patatine, forse ancora maggiore delle scatole multicolore di cereali per la colazione.
Le più buone? Le Pringles honey & mustard di una spanna sopra le Kettle Brand Potato Chips, in particolare quelle cheddar & beer che si classificano a pari merito con le Lays al BBQ. Categoria a parte quelle al guacamole, buone ma piccanti. Troppo.
Sono le 14:00 quando arriviamo ma già gli ultimi chilometri li percorriamo all’interno del parco e iniziamo ad ammirare la bellezza del paesaggio e della fauna. Facciamo i primi incontri ravvicinati con una mandria di bisonti, un pascolo di stambecchi e un temerario cervo mulo che si lascia avvicinare.
La strada è abbastanza impegnativa, con l’alternanza di curve in discesa e tunnel senza illuminazione. L’unica luce è quella naturale che filtra dalle fenditure nella roccia.
Parcheggiamo e programmiamo, grazie alla mappa in italiano, un’escursione a piedi. Zion è davvero ben organizzato, ci sembra diverso dai parchi visti finora, forse perché siamo in Utah e pensiamo che la gestione sia diversa nei vari stati.
Dal Visitor Center prendiamo lo shuttle gratuito che ferma nelle diverse stazioni da cui partono i sentieri. Noi scegliamo l’escursione verso il Lower Emerald Pool Trail e ci spingiamo fino al livello medio della cascata. La prima tappa dista un chilometro dalla fermata dello shuttle e per andata e ritorno richiede circa un’ora di cammino. Una volta sul posto decidiamo di proseguire fino al livello successivo (altri 500 m).
La portata d’acqua durante il periodo della nostra visita non era maestosa, ma comunque è stata una visita suggestiva perché senza bagnarci troppo siamo passati dietro la cascata, costeggiando la roccia. Se non avete molto tempo a disposizione, fate almeno questa escursione.
Al rientro verso la navetta facciamo un altro incontro ravvicinato con tre cervi e riprendiamo la macchina per raggiungere Alamo in Nevada, un tappone di 295 chilometri che abbiamo programmato per avvicinarci il più possibile alla destinazione del giorno dopo che prevede l’ingresso allo Yosemite. Procediamo senza soste verso una località generica visto che sul navigatore l’indirizzo del nostro motel non esiste, e alla fine ci ritroviamo in uno stradone dove non ci sono segni di vita né insegne luminose. Ma un colpo di fortuna ci regala il posto di blocco dello sceriffo, l’unico che abbiamo visto in 10 giorni sulle strade americane.
Ci accostiamo lentamente, ci spara un bel faro in faccia e poi scende dall’auto per venirci incontro. La prima cosa che fa è chiedere scusa per il faro, doveva farlo. Si è messo a disposizione per aiutarci e ci ha dato le ultime indicazioni per raggiungere Windmill Ridge, diventato Timbers Lodging & Grill (agg. 01/20), congedandosi con un insolito e inquietante “Have a safe night”.
Alle 20:00 in punto facciamo check-in e ci rendiamo conto che ci troviamo nell’unico posto dove troveremo da mangiare. Quindi, siccome ci avvertono che stanno per chiudere la cucina, ci sediamo a tavola insieme alle valigie.
Dall’Italia abbiamo fantasticato per due mesi su questo posto, per via delle foto non esaltanti e dell’isolamento. Scherzavamo sul fatto che avremmo trovato ad accoglierci tutti i maniaci, i serial killer e i freaks dei film americani. Immaginavamo un soggiorno da incubo, fatto di torture, fughe e morti ammazzati, e invece troviamo un posto caldo, accogliente e soprattutto molto pulito.
Visto che non eravamo noi la portata principale della cena, ordiniamo wrapped, una sorta di piadina arrotolata e ripiena di tacchino arrosto condito con pomodoro, cipolla e cetrioli, accompagnata da insalata di patate. E l’immancabile cheeseburger per il confronto con quelli già provati, questa volta di manzo Angus, e patatine fritte.
Dopo cena raggiungiamo il nostro alloggio che consiste in un cottage in legno ben arredato, caldo, spazioso, pulito e con tutti i servizi, compresa la vasca idromassaggio.
È ancora presto prima dormire perciò studiamo la tappa del giorno dopo e chiacchieriamo sulla veranda esterna, immersi nel buio tra muggiti lontani e un mare di stelle. Ci troviamo nella classica situazione in cui lui sente un rumore sinistro provenire dal bosco e come un genio si avvia nell’oscurità, mentre lei inizia a scappare e a inciampare infilando tutte le direzioni più improbabili: dalle scale che portano in basso, alla casa abbandonata, quella con i vetri rotti e sporchi di sangue. Noi ci dimostriamo più intelligenti dei pruriginosi teenagers dei B-movie americani e optiamo per un rientro in stanza, una doccia e un bel lettone.
Ciucciarella resta fuori a fare la guardia, sono sicuro che in caso di bisogno lei si accenderà.

1/10 Alamo – Yosemite – Mariposa (634 km)

Sopravvissuti alla notte, ci attende un’altra giornata fantasticata per molto tempo dall’Italia. Oggi attraverseremo tutto il parco Yosemite passando per quello che la guida definisce l’invalicabile Tioga Pass a 3000 metri di quota.
Ma ciò che ci affascina è anche tutto ciò che precede il valico, cioè un’immensa strada desertica in pieno Nevada, circondata da un paesaggio arido pieno di Joshua tree e basi militari.
I cartelli stradali ci fanno capire dove siamo, perché stiamo per prendere l’Highway 375, definita Extraterrestrial Highway. Ora è tutto chiaro: stiamo attraversando i paesaggi della misteriosa Area 51 e il cartello di benvenuto di Rachel non lascia spazio a equivoci. Dice che la popolazione è composta sicuramente da umani e da un numero indefinito di alieni. Sono anche ironici questi americani.
Superiamo indenni la zona dei test missilistici dopo aver ricordato la rassicurante trama del film Le colline hanno gli occhi e facciamo una piccola pausa-rifornimento a Tonopah (12.6 galloni per 48 dollari – 38 Eu). Sarà questo l’ultimo pieno di benzina prima della riconsegna, poi continuiamo ad attraversare la cittadina che è il primo insediamento degno di nota dopo 150 miglia di nulla.
Da qui prendiamo la 120, la strada del temibile Tioga Pass e ci fermiamo a scattare qualche foto a Benton, che il 6 settembre 2014 ha compiuto 150 anni e l’abbiamo trovata ancora tirata a lucido per i festeggiamenti. Anche qui c’è lo store abbandonato, la pompa di benzina, la prigione, i carri dei pionieri e trattori arrugginiti.
La strada inizia a salire con tornanti a ripetizione e davanti a noi si apre lo spettacolare scenario del Mono Lake con la Sierra Nevada a fare da sfondo, mentre alle nostre lasciamo le cime innevate delle White Mountain.
Ora, in tutta onestà, l’invalicabile Tioga Pass non è stata una grande esperienza; è vero che è l’unica strada che attraversa l’intero Yosemite ma è anche vero che per lunghezza, curve e lentezza non restituisce tante soddisfazioni quanto l’impegno richiesto. I paesaggi che ci fermiamo a fotografare sono prevalentemente di tipo alpino, molto simili a quelli europei.
Proprio quando reclamiamo un segnale che ci confermi di essere nel cuore dello Yosemite e non sugli Aurunci, ci attraversa la strada una coppia di cerbiatti in corsa e dopo qualche chilometro – incredibile – quasi venendoci incontro, tocca a un magnifico orso bruno. Non è finita, perché all’imbrunire scorgiamo sul ciglio della strada un’ultima maestosa presenza: perfettamente mimetizzato con la natura, un esemplare maschio di cervo sta brucando e al nostro passaggio tira su la testa mostrando con orgoglio le sue corna poderose.
Il check-in al Best Western Plus Yosemite di Mariposa è più gradevole del solito perché riceviamo un regalo speciale riservato ai clienti Diamond: una sportina che sembra la calza della befana piena di snack dolci, salati, gomme, caramelle, acqua e confezioni da viaggio di creme idratanti e dentifricio. Inoltre la receptionist ci raccomanda il Charles Street Dinner House che per TripAdvisor è al primo posto dei ristoranti di Mariposa.
Mentre lo raggiungiamo a piedi passeggiando per la gradevole Main Street, abbiamo la sensazione che Mariposa sia un gran bel posto dove trascorrere del tempo.
Il locale è molto tipico, con arredamento in legno e luci soffuse. Veniamo accolti bene, ci fanno accomodare e al momento dell’ordinazione non abbiamo dubbi: Honey BBQ Baby Back Ribs, costine di maiale affumicate e rivestite di salsa barbecue dolce fatta in casa, e l’immenso Charles Street Burger: anche qui mezzo chilo di hamburger ricoperto di american cheese, cipolle grigliate e una salsa “segreta” con mostarda di Digione. I piatti sono accompagnati da zuppa di pomodoro con focaccia all’aglio e spezie, e insalata fresca con crostini e cheddar grattugiato. Ci aggiungiamo due birre servite in bicchieri grandi come la Champions e spendiamo 54 dollari (42.50 Eu). Alla fine ci servono anche una creme brûlé deliziosa, un omaggio ricevuto grazie al biglietto da visita della receptionist con cui ci siamo presentati alla proprietaria.
Da notare: anche qui, come altrove, ci servono grandi brocche gelate piene di acqua e ghiaccio (non richiesto), hanno la mania del ghiaccio. Ghiaccio ovunque.
Dopo quasi 9 ore di guida la stanchezza non dà scampo, bisogna recuperare le forze per affrontare l’ultima giornata a stretto contatto con la natura dello Yosemite.

2/10 Mariposa – Yosemite – San Francisco (383 km)

Il nostro ultimo giorno on the road non sarà al risparmio perché abbiamo da vedere molte cose.
Dopo la colazione in hotel alle 10:00 siamo già in strada per raggiungere il Visitor Center dello Yosemite Village. Da qui abbiamo programmato due escursioni a piedi per vedere le Brindalveil fall e le Lower Yosemite fall.
Purtroppo le due cascate sono entrambe abbastanza asciutte quindi c’è poco da vedere e molto da immaginare. Durante la primavera devono essere spettacolari ma nel periodo in cui le visitiamo noi, decisamente no. Facciamo solo foto agli scoiattoli, alle cime di El Capitan e Half Dome e rientriamo in macchina diretti a San Francisco, giusto 315 km più in là.
La strada, ancora una volta, è tutta curve e per una buona metà in discesa su strapiombi senza protezioni. La concentrazione resta alta praticamente fino all’aeroporto visto che l’ultimo tratto è da fare tra le intricate uscite della highway e in prossimità della città il traffico diventa convulso, difficile da affrontare dopo 10 giorni di campagne, deserti e paesini semi abbandonati.
Arrivati sulla baia incontriamo finalmente l’unica strada a pagamento (5 dollari – 3.90 Euro) che immette sullo spettacolare ponte di San Mateo. Da qui in poi le indicazioni per la riconsegna dell’auto diventano sempre più precise, basta seguire i cartelli Rental Car Return per raggiungere con precisione i box dell’Alamo dove congediamo la nostra Ciucciarella dopo aver percorso insieme 4116 chilometri, per un totale di 257 litri di benzina e un costo carburante di 194 Euro. La procedura di riconsegna è velocissima, svuotiamo l’auto, la salutiamo devotamente per i servizi resi e l’altissima affidabilità e ci dirigiamo verso il terminal da cui partono i treni per il centro città.
Arriviamo al Parking G per prendere il servizio di trasporti urbani BART, il biglietto alle macchine automatiche va fatto in modo singolare: si caricano contanti o carte e si sceglie un dollaro alla volta quanto credito usare in base alla propria destinazione, per noi basteranno 8.65 dollari (6.80 Eu) a persona per raggiungere la fermata Montgomery, vicino Union Square, nel cuore della città.
Dopo 30 minuti di metro siamo all’esterno, storditi dalle luci e dal traffico. Ci incamminiamo verso il Baldwin, adesso Hotel 32ONE (agg. 01/20), e ci basta poco per capire che trascorreremo i prossimi giorni in pieno centro, circondati da eleganti boutique di grandi firme e i più noti monomarca internazionali.
Prendiamo possesso della stanza al nono piano e usciamo per andare a cena nello storico Pearl’s Deluxe Burgers, un’istituzione di San Francisco per mangiare un grande hamburger personalizzabile.
Il locale è piccolissimo, avrà al massimo 20 coperti, l’atmosfera è confidenziale e ci sentiamo a nostro agio: non sembra di essere in una grande metropoli, sembra di essere ancora on the road e per noi questo impatto soft è perfetto.
Scegliamo un sandwich con pollo grigliato e un hamburger di manzo Kobe, tormentone gastronomico del viaggio a cui ormai siamo devoti, condito con l’immancabile bacon e formaggio americano. Paghiamo 31.49 dollari (24.80 Eu) e stavolta la passeggiata digestiva ci porta fino a Union Square, dove facciamo conoscenza con i famosi saliscendi della città e i cable car.
Le prime impressioni ci bastano per confermare quanto letto sulle guide: San Francisco ha un numero consistente di senzatetto che vagano per le strade del centro e che sembrano messi piuttosto male.
Da notare: dopo aver monitorato il meteo di San Francisco per due mesi, siamo partiti dall’Italia con la certezza di trovare tempo variabile e temperature basse. In piena estate la massima non ha mai superato i 24 gradi!
E invece? Invece succede che ci troviamo proprio nei giorni in cui la città è colpita da un’insolita ondata di caldo, che spiazza anche gli abitanti del posto. Sentiamo sui mezzi pubblici che è argomento di discussione, sono meravigliati loro stessi di ritrovarsi con 31 gradi a Ottobre, figuriamoci noi che avevamo messo in valigia le pelli di foca e il colbacco di Totò e Peppino!

3/10 San Francisco

La giornata inizia con la colazione da Starbucks a base di brownie, muffin al mirtillo e tortino con noci pecan. Da bere prendiamo succo d’arancia e il celebre frappuccino al caramello. Siccome abbiamo superato il loro tempo media di attesa, ci danno un buono per una consumazione gratuita in qualsiasi Starbucks: questo si che è Customer Relationship Management fatto come si deve!
Sotto un sole caldissimo ci incamminiamo verso il molo 33 dove ci attende l’imbarco per l’isola di Alcatraz. Durante il tragitto passiamo proprio sotto la Transamerica Pyramid, il grattacielo a forma di piramide con base quadrata che dà un tocco unico allo skyline di San Francisco.
Alle 12:30 partiamo verso l’isola fortezza che dista solo un miglio dalla terra, bastano 15 minuti di navigazione per sbarcare davanti all’edificio che ospitava le guardie della prigione e i loro famigliari. I biglietti per il tour si devono prenotare online sul sito Alcatraz Cruises al costo di 30 dollari (23.60 Eu).
Armati di mappa e brochure, ci dirigiamo verso il posto di guardia dove venivano presi in consegna i galeotti e qui ritiriamo l’audioguida in italiano per iniziare il giro.
Tutto è molto chiaro, vaghiamo per i corridoi e le celle ascoltando la storia della prigione. La ricostruzione degli avvenimenti accaduti nel carcere di massima sicurezza sono narrati dalle voci di vere guardie ed ex detenuti che hanno vissuto e lavorato ad Alcatraz.
Riceviamo informazioni sulle regole della prigione, le dimensioni delle celle, sugli ospiti celebri come Al Capone, fino alla ribellione e la rocambolesca evasione di Frank Morris che ha ispirato il film Fuga da Alcatraz interpretato da Clint Eastwood. Il percorso dura un’ora e permette di visitare tutto il carcere, dal cortile alla mensa, dalla biblioteca alle sale riservate alle guardie.
Alcatraz venne chiuso nel 1963 per i costi alti e fu occupato due volte dai nativi americani durante le proteste del ’68. Venne poi liberata e assegnata all’autorità federale dei parchi che l’ha aperta al pubblico per le visite. Al termine del tour finiamo nell’immancabile bookshop dove troviamo un ex detenuto che firma le copie del suo libro. Una riabilitazione ben riuscita.
Dopo 3 ore sull’isola torniamo sulla terraferma, ritiriamo una foto scattata alla partenza e proseguiamo verso il celebre Pier 39, per vedere i leoni marini ma soprattutto per fare shopping nel Fisherman’s Wharf.
Troviamo decine di negozi, ristoranti, spettacoli, musicisti e facciamo incetta di maglie, tazze, bicchieri, le immancabili calamite, cappelli, ecc…
Ammiriamo il tramonto sulla baia davanti al Golden Gate e prima di andar via ci fermiamo a scattare foto alle star del posto: una colonia di leoni marini in libertà che se la gode sui pontili galleggianti.
Riprendiamo dal porto la nostra Grant Street che ci porterà fino all’hotel, in centro, ma prima affrontiamo un paio dei temibili saliscendi della città. Facciamo un passaggio ravvicinato della Coit Tower e attraversiamo tutta Chinatown piena di cose interessanti. Consiglio: fate qui i vostri acquisti di souvenir, ci sono bene o male le stesse cose del molo 39 ma costano meno.
Alle 21:00 arriviamo in hotel, lasciamo buste, zaini e pacchetti e andiamo verso il ristorante scelto per la serata. Considerata la grande comunità giapponese presente in città, puntiamo tutto sul sushi e TripAdvisor ci consiglia il Ryoko’s.
Piccolo, in un seminterrato, ci iscriviamo da soli sulla lavagnetta di chi è in attesa. Non accettano prenotazioni e sono sempre pieni ma dopo 45 minuti vengono a chiamarci fuori per farci accomodare. Ordiniamo Nigiri sushi dinner, una selezione dello chef con zuppa di miso, 9 pezzi di nigiri e 6 pezzi di California roll con granchio e avocado. Poi Tobiko, con uova di pesce volante, Unakyu, con anguilla bbq e cetriolo, Alaskan, con salmone affumicato, asparagi e avocado. Per finire Pier 39 con granchio e asparagi. Spendiamo 62.75 dollari (49.40 Eu) e rientriamo in hotel soddisfatti per la prima cena a base di pesce, depurativa.
Si comincia a pensare alla partenza, prima di salire in camera prenotiamo lo shuttle per il rientro in aeroporto. Considerato che dobbiamo uscire dalla stanza alle 05:30 non intendiamo rischiare i mezzi pubblici per arrivare al gate. Meglio andare sul sicuro, e poi viene a costare 15 dollari (11.80 Eu) a persona cioè poco più del costo della metro.

04/10 San Francisco

Terzo giorno a San Francisco e seconda colazione da Starbucks, abbiamo un buono da consumare e lo impieghiamo tutto per uno smoothies fragola e banana.
La giornata di oggi sarà in buona parte dedicata al simbolo della città: il Golden Gate Bridge. Google Maps ci dice che dobbiamo prendere due autobus e indica con precisione fermate e coincidenze. Da notare: a bordo i biglietti si acquistano solo in contanti e con la cifra precisa di 2.25 dollari (1.80 Eu), non è previsto il resto.
Dopo 40 minuti arriviamo al ponte, che ha ovviamente il suo Visitor Center pieno di gadget e spiegazioni interessanti sulla costruzione. Non è facile trasformare una strada in un’attrazione turistica, eppure ci sono riusciti benissimo. Tutta l’area del ponte è curata e ovviamente inserita nel programma dei parchi nazionali, con tante piste ciclabili e sentieri.
Camminiamo ammirando la baia piena di barche a vela e qualche temerario surfista che cavalca le onde proprio sotto il ponte. L’opera è incredibile, armoniosa e allo stesso tempo estremamente funzionale. Il Golden Gate ha quasi 80 anni ma non li dimostra.
Il traffico nelle due direzioni è notevole, noi proseguiamo sulla passerella pedonale fino alla metà dei 2,7 chilometri del ponte. Siamo a circa 70 metri di altezza, nel punto in cui molte persone hanno deciso di togliersi la vita. Purtroppo il Golden Gate è noto anche per l’altissimo numero di suicidi, sono oltre 1300 con punte di 50 in un anno, tanto che ci sono delle linee di emergenza per segnalare i casi di persone sospettate di compiere il gesto estremo.
Ci concentriamo su particolari più allegri e di rientro scattiamo la foto finale, quella che conclude la nostra gallery Handmade in the USA pubblicata su Facebook e arricchita quotidianamente con uno scatto rappresentativo della giornata.
A metà pomeriggio prendiamo il bus 28 e scendiamo al Golden Gate Park, anche questo enorme. Attraversiamo il roseto e arriviamo fino ai margini del giardino botanico ma non riusciamo a vedere il giardino zen perché è tardi e abbiamo da prendere un altro bus, il numero 5 che ci porterà a Japantown, il quartiere giapponese.
È sabato, ci sono tante persone in giro che vanno in bici, si allenano, bevono e si godono il week end, quindi il viaggio di rientro è un po’ tormentato: abbiamo aspettato invano due autobus stracolmi finché non ci siamo incamminati verso la fermata successiva e a stento siamo riusciti a prendere il terzo bus, stracarico anch’esso. Dopo 20 minuti inscatolati come sardine, scendiamo in Ferrel street ed entriamo nel Japan Center che racchiude un angolo di Sol Levante a San Francisco, con i suoi negozi e ristoranti dell’estremo oriente. Sembra che anche i clienti siano quasi esclusivamente orientali. Girovaghiamo un po’ tra ikebana, sushi bar e cosplayer, e ovviamente non manchiamo l’appuntamento con il cibo e lo shopping. All’uscita ci trasferiamo verso Chinatown dove completiamo i nostri acquisti con nuove sciarpe, bracciali, the, ecc… finché non arriva l’ora della cena.
Un po’ per astinenza, un po’ perché è stato il protagonista dei nostri pasti per due settimane, per l’ultima cena americana torniamo al Pearl’s Deluxe Burgers e ordiniamo hamburger deluxe di manzo e di tacchino, con la solita aggiunta di bacon, cheddar e patatine. Anche l’ultimo hamburger americano è ottimo, e Pearl’s entra nella classifica dei primi tre, subito dopo quello di Mariposa e l’irraggiungibile di Las Vegas. Fatto curioso: il locale non accetta carte di credito, solo contanti. Però all’interno ha uno sportello ATM! 🙂
Prima di rientrare in hotel facciamo un ultimo spesino di dolci e schifezze varie da portare in Italia, poi è davvero ora di svuotare le valigie e comporle diversamente per il ritorno perché sono più cariche dell’andata. Molto più cariche 😉
Il viaggio tra San Francisco, Las Vegas e i grandi parchi americani finisce con un pensiero alle prossime destinazioni: India? Olanda? Vietnam? Florida? Louisiana? Dov’è che andremo?
Non lo so, però se il ritmo resta quello degli ultimi due anni, che ci ha portato a Parigi, in Cambogia, Inghilterra, Andalusia, Atene e Russia, ci saranno sicuramente tanti altri diari di viaggio da scrivere!

Note
Gli hotel sono stati prenotati su BookingBest Western.
Durante il viaggio la guida di riferimento è stata la Lonely Planet Stati Uniti Occidentali.
Le letture fatte in viaggio su Kindle sono state: Il bello della vita di Dan Rhodes, Le terrificanti storie di Zio Montague di Chris Priestley e Il tempo della verità di Glenn Cooper
Come applicazioni da usare offline può bastare TripAdvisor Offline City Guides