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Diario di viaggio: Cambogia

Bayon_blog

Ebbene sì, è tempo tempo di rimettersi in viaggio 😉
Dai tempi dei due viaggi in solitaria in Europa non faccio un bel giro come si deve. Così, dopo aver raccolto per mesi informazioni, ho scelto la méta da raggiungere: la Cambogia.
Vado finalmente a visitare i templi di Angkor, la civilità millenaria del popolo khmer, le foreste incontaminate, luoghi e spiagge ancora non raggiunti dal turismo di massa. Il viaggio è stato organizzato interamente su Internet: voli, pernottamenti, trasferimenti, tutto. Come sempre nel reportage quotidiano proverò a trasmettere non solo la descrizione dei luoghi e le sensazioni personali, ma anche alcuni dettagli su prezzi, ingressi, pasti, biglietti, ecc… in pratica tutto ciò che rende utile un reportage non fine a se stesso ma destinato ad altri viaggiatori diretti in Cambogia 😉

01/03 Roma – Shanghai – Phnom Pen

Si parte. Si parte dall’aeroporto di Roma Fiumicino, con un volo China Eastern per Shanghai. L’acquisto è avvenuto su Tui.it il 10/12/2012, 650 Euro a/r con destinazione finale Phnom Pen, la capitale cambogiana.
La durata del primo collegamento è stabilita in 11 ore e 40 minuti, ma si arriva in Cambogia dopo 10 ore e mezza di un volo indimenticabile. Per la prima volta mi dirigo verso l’Oriente definito “estremo”, e lo noto appena salito a bordo: gli occidentali saranno una decina al massimo. Le sedute sono quelle standard, vuol dire che quelli alti soffriranno come al solito. E chi non lavora come contorsionista al circo di Pechino, soffrirà lo stesso anche se è alto un metro e mezzo: le poltrone degli aerei non sono fatte per dormire, c’è poco da fare. Ok, rinuncio. Aspetto che servano il pasto, sorprendentemente buono (noodles con pollo e tofu), e guardo in serie due film e un cartone animato, recitati in lingua originale e con sottotitoli in inglese. Il primo film mi ha rapito: era una versione cinese di Chocolate, solo che i protagonisti sono due uomini che si contendono una donna a colpi di baguette. Sì, perché il cioccolato francese è stato solo d’ispirazione per il regista, in realtà i giovanotti sono due fornai. In breve: il fornaio indigeno è innamorato di una donzella locale, un bel giorno arriva il fornaio occidentale e inizia a sfornare sfilatini mai visti prima 😉
Il fornaio viene da Parigi, si chiama Mr. Bread (originali!) e ha una vaga somiglianza con Johnny Deep. Non vi svelo il finale perché sono sicuro che con queste premesse correrete a noleggiarlo e non voglio rovinarvi la sorpresa.
Torniamo al volo. Tutto fila liscio tranquillo, i vicini sono discreti, c’è silenzio. All’imbarco avevo visto alcuni passeggeri indossare mascherine bianche da infermiere. È un gesto di rispetto, educazione, cortesia, molto gradito a un ipocondriaco, anche se quando calano le luci produce un effetto orrorifico: mi alzo per sistemare una cosa nello zaino e noto che sono tantissimi. Sembrano tanti Hannibal Lecter pronti a entrare in azione nella penombra: un motivo in più per restare sveglio 😉
All’alba qualcosa cambia, forse siamo entrati nello spazio aereo cinese perché alcuni subiscono una mutazione improvvisa. Dopo la colazione inizia un imbarazzante notiziario dall’interno: rutti, lingue che risucchiano avanzi tra i denti riproducendo i versi del fringuello, e sputacchi e scatarri elegantemente depositati nel sacchetto del vomito. Da vomito. Bisogna adattarsi, in fondo sono un ospite adesso 😉
Per fortuna dura poco, a uno sputo da dove siamo c’è l’aeroporto: si atterra a Shanghai e si procede verso il terminal 3 per il prossimo volo. Solo, nel mezzo, c’è un’attesa di circa 5 ore da trascorre nel duty free, giusto il tempo di cambiare qualche soldo e sgranchirsi le gambe 😉
L’aereo per Phnom Penh parte puntuale, il volo dura 4 ore e a bordo servono una cena a base di pasta e maiale con bamboo. L’aeroporto è piccolo e una volta a terra ci sono da sbrigare le pratiche per il visto d’ingresso: moduli da compilare (è necessario consegnare una fototessera) e 20 dollari da pagare per l’ingresso turistico. Il tempo di fare tutto e il bagaglio è già sul nastro, pronto per essere ritirato. Una volta fuori dall’aeroporto ci attende il trasferimento per l’hotel, prenotato dall’Italia al costo di 12 dollari. Il tragitto dura 30 minuti e l’impatto con la Cambogia si fa subito sentire: strade semideserte, poco illuminate, l’aria calda sembra rallentare tutto ma a destinazione arriviamo lo stesso.
L’hotel The Plantation è su una stradina laterale dell’arteria principale che porta dritti al palazzo reale, l’impressione generale non è buona. È molto tardi, c’è poca luce e sembra deserto. Ci accompagnano in camera e per fortuna tutto viene ribaltato: la stanza è bellissima, enorme, con baldacchino, e un futon pieno di cuscini compone un rilassante angolo-salottino. È ormai l’una, non resta che sistemare le lancette dell’orologio (+6 ore rispetto all’Italia) e dormire. Domani c’è ancora da viaggiare.

03/03 Phnom Penh – Siem Reap

La giornata inizia con una ricca colazione a bordo piscina. Finalmente l’hotel rivela il meglio di sé, confermando l’ottima impressione suscitata al momento della prenotazione: il giardino tropicale è rigoglioso, tutto attorno alla piscina ci sono gazebo in ferro battuto con lettini prendisole ma siamo concentrati su altro… un buffet enorme, per esempio. Croissant, fagottini, the, succhi, riso saltato con verdure e salsicce. Mangiamo alla grande e bene, poi si fanno di nuovo i bagagli e ci rimettiamo in marcia: c’è da organizzare in tempo reale uno spostamento che ci farà vedere un po’ di Cambogia on the road.
Per arrivare a Siem Reap ci sono diverse opzioni: pullman, minibus, auto privata. Si va dai 12 agli 85 dollari, per un tragitto lungo 320 chilometri. Fuori dall’albergo contrattiamo il passaggio su un’auto privata, ci accordiamo per 65 dollari e ci gustiamo una guida pittoresca, a tratti pericolosa: il codice della strada è praticamente assente. Sorpassi in curva, invasione della corsia di marcia opposta, immissioni dalle strade laterali in stile “uscita dai box” di Formula 1.
Gli abitanti del posto sono abituati, l’insieme apparentemente caotico ha una sua armonia: nessuno insulta, nessuno si arrabbia, e a dispetto di quanto si possa immaginare il clacson viene usato molto poco.
La strada è lunga, attraversa decine di paesi e villaggi e dona immagini uniche. I marciapiedi sono praticamente inesistenti, tutto avviene sul ciglio della strada: ci si lava, si fa commercio, si gioca, si pascolano gli animali…
C’è tanto verde e tanta acqua, il fiume-lago Tonle Sap ci accompagna per tutta la parte iniziale del viaggio e lascia solo immaginare che portata può avere durante la stagione delle piogge: ora è in fase di secca e scopre le fondamenta delle case che invece di essere interrate sono del tutto emerse. In pratica sono palafitte di legno e cemento, decorate finemente o ridotte a stamberghe, tetti di lamiera, paglia, pietra, sono queste le caratteristiche di quasi tutte le abitazioni che arricchiscono il paesaggio. Dopo 5 ore di viaggio arriviamo a destinazione presso il Royal Crown Hotel & Spa di Siem Reap. Mentre sistemano le pratiche del check-in ci servono un cocktail di benvenuto, dopo ci accompagnano in camera e arriva una botta di folle terrore: con me non ho più il portafoglio. Nel pagare l’autista e consegnare i documenti alla reception qualcosa non ha funzionato, mi immagino già al telefono a bloccare le carte di credito e a trovare soluzioni per i giorni a venire. Mi vedevo già a lavare i piatti nel ristorante dell’hotel e a lavorare sul loro sito internet per i prossimi anni, perché in reception non avevano ritrovato nulla! Al rientro in camera controllo meglio i bagagli e poi – finalmente! – arriva il sospiro di sollievo: zaino nuovo, con tante tasche, un po’ di stanchezza, e il portafoglio si era infilato dove non avevo visto. Ma non solo! Perché era insieme al passaporto, solo che quest’ultimo non mi ero neppure accorto di averlo “perso”!
Insomma, per festeggiare resta da fare solo un bel bagno rilassante in piscina: infilo la testa sotto il getto d’acqua soffiato dalla proboscide di un elefante in pietra e mi schiarisco le idee. Le schiarisco abbastanza da capire che il mio stomaco ha bisogno di essere riempito, così raggiungiamo un bel locale vicino Pub Street (il nome rappresenta esattamente la caratteristica principale di questa animata strada) ed entriamo diretti da Angkor Palm per la nostra prima cena in Cambogia. Ci sediamo attorno a un bel tavolo con poltroncine di vimini e ordiniamo senza esitazione il pezzo forte del locale: sette assaggi di piatti tipici per due persone, alla modica cifra di 14 dollari. Tutte le pietanze sono servite in piccoli recipienti fatti con foglie di banano, nell’ordine mangiamo: fresh spring roll, involtini fatti con verdure locali da intingere in una salsa aromatica con granella di arachidi; mango salad, un’insalata del frutto con aggiunta di pesce affumicato; ribs pork: piccole costine di maiale arrostite e condite con miele; fish amok, la specialità di Siem Reap e dell’intera Cambogia, pesce del Mekong stufato e cotto con latte di cocco; Green curry con pollo; Cha ta kuong, spinaci d’acqua saltati; e riso bollito per accompagnare il tutto. E il tutto è molto buono. Tranne il dessert, ecco quello era proprio da non presentare: brutto da vedere e cattivo da mangiare. Sembrava un frullato di qualche frutto mischiato con pesce avariato, una conclusione non degna di una cena spettacolare.
Tornando verso l’hotel ci fermiamo a prenotare un tuk tuk (motorini attrezzati con un rimorchio per portare i turisti in giro) per l’indomani. La richiesta è di 15 dollari per l’intera giornata da dedicare allo “small circuit”, il piccolo circuito dei templi.
I templi sono quelli di Angkor, la tappa-protagonista assoluta di questo viaggio. Nota di servizio: trattare sul prezzo in Cambogia è una sorta di consuetudine locale ma in certe occasioni si potrebbe (e dovrebbe) evitare. Perché? Perché se un uomo ti chiede l’equivalente di 12 Euro per scarrozzarti in giro tutto il giorno, con tanto di tappe e attese all’esterno per la durata della visita… cosa c’è da contrattare? 😉

04/03 Siem Reap (piccolo circuito Angkor Wat)

La giornata inizia alle 8:00 con una sostanziosa colazione dal buffet dell’hotel: croissant, pancake, frutta, frittelle khmer e l’ormai immancabile riso saltato con uova e piselli. Un bel pieno di energia per una lunga giornata di escursioni.
Jet
è il ragazzo che ci accompagnerà con il suo tuk tuk, il mezzo di trasporto più usato a Siem Reap. La strategia è assolutamente vincente: viaggiare nel senso opposto a quello normalmente seguito dal flusso turistico. Il programma è fitto perché le cose da vedere sono molte, Jet ci lascia all’ingresso di ogni sito e ci aspetta all’uscita per proseguire verso la prossima tappa. Ci sono tanti templi, Angkor Wat è un complesso gigantesco costruito in secoli diversi e con dimensioni ciclopiche, frutto dell’ingegno di regnanti che venivano venerati come dei e come tali si comportavano con i sudditi. Gli edifici trasudano storia, le decorazioni e i bassorilievi narrano vicende e leggende della Cambogia e del fiero popolo khmer.
I siti di maggiore interesse sono tre: Ta Prohm, suggestivo per via delle radici degli alberi che hanno letteralmente avvolto le strutture in pietra, creando effetti sorprendenti tra roccia e legno che sembrano impegnati in una lotta eterna e immobile. Poi c’è la città fortificata di Angkor Tom che ospita l’imponente Bayon, un edificio decorato splendidamente con enormi volti del sovrano Jayavarman VII che sembrano guardare il visitatore da ogni angolazione. E per finire, ovviamente, Angkor Wat con il suo fossato enorme da cui si accede per mezzo di lunghi pontili in arenaria.
Ogni descrizione mi viene difficile, sono luoghi da vedere, vivere, non sono solo siti turistici. Dentro c’è vita, la senti nell’aria, nei muri, nelle sculture, nei passaggi, nella natura rigogliosa, verde e immensa che è la vera vincitrice, la protagonista assoluta di questo complesso. È la natura che vince sulla pietra, la natura che concede spazi all’uomo dimostrando di poterli riprendere quando vuole.
Quindi, piuttosto che fare un’accurata descrizione di ogni tempio visto, preferisco suggerire informazioni utili su Angkor Wat e la Cambogia in caso di visita:

– Il biglietto di ingresso costa 20 dollari al giorno e deve essere mostrato all’ingresso dei principali templi, non perdetelo!
– Portate con voi una guida turistica per capire cosa state vedendo, com’è stato costruito, quando e perché.
– Viaggiate muniti di una grande scorta d’acqua, perché l’umidità è tanta, fa caldo e si suda moltissimo.
– Non dimenticate la crema solare e uno spray antinsetti tropicali se non volete tornare in albergo gonfi come una zampogna.

Ogni sito ha il suo stuolo di venditori ambulanti che proveranno a vendervi di tutto: guide improvvisate, cd musicali, statuine, cartoline, alimenti e bibite. Spesso saranno i bambini ad avvicinarvi, e sarà davvero difficile accontentare tutti. In alcuni templi è possibile fare delle offerte a monaci e monache buddhisti che pregheranno per voi e vi daranno degli incensi da offrire a bellissime statue di Buddha. È un rituale, non importa se siate buddhisti o meno, se volete immergervi in questa esperienza, imitare la gestualità dei nostri ospiti è un atto di cortesia e rispetto che non guasta mai. La cosa certa è che non si commette nessun sacrilegio, né verso la loro né verso la vostra fede.
L’intera durata del percorso, condita dalle immancabili fotografie che non possono essere altro che suggestive, richiede circa 8 ore. Il piccolo circuito ha più cose da vedere a piedi, ma meno distanti l’una dall’altra rispetto al grande circuito.
Solo domani saprò quanto tempo ci vorrà per la seconda parte della visita. Sì, perché domani si ricomincia e si viaggia verso nuovi spazi, nuove storie, nuove esperienze. Sempre con Jet, per la cifra di altri 15 dollari 😉
Prima di accompagnarci in albergo ci porta di sua volontà in un campo di sterminio dei tempi di Pol Pot, il dittatore espressione del comunismo agrario che sterminò quasi due milioni di cambogiani sul finire degli anni ’70, una ferita non ancora rimarginata. In questo lager, per una quantomai azzeccata legge del contrappasso, ora c’è una scuola buddhista. Assistiamo alla funzione e assorbiamo forza dai mantra recitati dalle voci dei piccoli monaci, un bel pieno di energie al termine di una giornata ricca di immagini, suoni, profumi, colori che mi resteranno dentro per tutta la vita. Le mie sono pur sempre impressioni personali, ma una cosa è certa: visitare Angkor e la Cambogia non vi lascerà indifferenti.
Tornati in hotel individuiamo il locale per cena e lo raggiungiamo con una passeggiata di qualche minuto, si trova in Alley Street, una parallela della movimentata Pub Street, prevalentemente occupata da ristoranti.
La nostra scelta è Amok, e il nome è tutto un programma perché sono specializzati nel cucinare l’omonimo piatto khmer. Ordiniamo una degustazione di antipasti (noodle con pollo, spring roll di verdure locali e insalata di papaya con gamberi) e una degustazione di 5 amok: pollo, maiale, manzo, gamberi e verdure, tutto servito nella classica foglia di banano e accompagnato da generose porzioni di riso. Spesa totale 19.50 dollari.
Prima di rientrare in hotel passeggiamo lungo Pub Street e Night Market dove iniziamo a individuare tutti i souvenir da portare in Italia, lo shopping è previsto per domani 😉

05/03 Siem Reap (grande circuito Angkor Wat)

La giornata inizia presto con un programma già definito: proseguire e concludere il grande circuito dei templi di Angkor Wat. In termini di chilometri da percorrere con il tuk tuk, le distanze sono maggiori del giorno precedente ma il numero di siti da visitare è minore. Come minore sarà l’impatto emotivo. E qui ci scappa il consiglio per il viaggiatore in Cambogia: la mossa giusta per una visita ben fatta, che distribuisca al meglio le energie da impiegare e le soddisfazioni da cogliere, consiste nell’avventurarsi prima con il piccolo e poi con il grande circuito. E, come già scritto, seguire entrambi con un ordine inverso rispetto a quello solitamente proposto dalle guide, in questo modo si evitano gli orari di punta e alcuni templi risulteranno praticamente semi-deserti. Procedendo così si visitano, nell’ordine: Pre Rup, Mebon, Ta Som, Preah Neak Poan, Preah Khan, Phimeneakas e la Terrazza degli Elefanti.
Come già anticipato, i templi sono di minore importanza rispetto a quelli del primo giorno ma una nota meritano il Ta Som, da attraversare tutto, fino in fondo, per scoprire solo verso l’uscita una magnifica arcata completamente avvolta da una radice; il Preah Neak Poan perché accessibile solo per mezzo di una lunga passerella in legno che fende una vegetazione ricchissima che affonda le radici direttamente nell’acqua. E per concludere in bellezza il Preah Khan, assolutamente all’altezza dei templi visitati il giorno precedente ma con una caratteristica positiva in più: è meno celebrato rispetto ai siti più noti, e quindi meno affollato. Ma vale la pena visitarlo perché è uno dei quattro templi più belli di Angkor (gli altri sono tutti nel piccolo circuito, vale a dire: Bayon, Ta Prohm e, ovviamente, Angkor Wat). La visita iniziata alle 10:30 è finita intorno alle 16:30 e sulla strada del ritorno abbiamo fatto una sosta per meditare in un bellissima pagoda buddhista, Wat Preah Prohm Roth (vale la pena una visita, anche se non siete buddhisti).
I giorni di Siem Reap sono stati intensi e faticosi, quindi una volta rientrati in hotel un massaggio khmer per concludere in bellezza è quasi un obbligo. Per 12 dollari ti strizzano, stirano e piegano dalle tempie fino alla punta dei piedi, per un’ora. Dopo, in una condizione di pieno appagamento per le esperienze fatte e le cose viste, ci dirigiamo nuovamente verso Pub Street per cenare. Stavolta la scelta cade su Cambodian BBQ per via del menù etnico e le modalità in cui viene servito. In pratica con 16 dollari servono un bel menù degustazione per due persone, che consiste in un vassoio circolare con: manzo, pollo, maiale, seppie e – udite! udite! – coccodrillo. Tutto a crudo. Poi arriva un piccolo barbecue che viene posto al centro del tavolo, e ricorda i templi di Angkor: la base è una pietra ollare semisferica che conserva il calore, mentre la grata per cucinare emerge dalla pietra con la medesima forma, e tutto intorno è circondata da un “fossato” fatto con brodo di pollo, noodles e verdure che restano a bollire durante la cottura della carne. Ah! Visto che sarete voi a gestire la cottura del cibo, evitate la modalità cosiddetta “al sangue” 😉
La serata finisce con il classico shopping serrato prima della partenza, così infiliamo nelle borse ogni genere di cose: abiti tradizionali della Cambogia, t-shirt, calamite da frigo (immancabili), the, spezie, federe per cuscini, pashmine, tovagliette, portafazzoletti e sicuramente qualche altra cosa che ora dimentico (spesa totale circa 60 dollari). Dopo si va a dormire, domattina sarà un’altra lunga giornata ma Siem Reap ha mantenuto le sue promesse e ci lascerà un ricordo indelebile.

06/03 Siem Reap – Koh Kong

Giornatone di viaggio, attraversiamo ancora un pezzo di Cambogia.
Prenderemo ancora una macchina, anzi due perché un primo autista ci porterà fino a Phnom Penh e da lì un suo collega ci accompagnerà verso la destinazione finale di questa nuova tappa: Koh Kong. La spesa totale del trasferimento consiste in 135 dollari, il viaggio dura circa nove ore per percorrere 600 chilometri. La prima parte la conosciamo, la seconda no ed è sicuramente molto più suggestiva anche perché, qualche ora dopo la ripartenza da Phnom Penh si arriva alle falde dei Monti Cardamomi… e si sente! Si sente letteralmente perché l’abitacolo viene invaso dal profumo intenso di questa spezia. La strada a tratti diventa una mulattiera, i veicoli sono sempre di meno e a un certo punto si viene avvolti dalla foresta, immensa. Quando siamo in cima sta tramontando e il sole va spegnendosi su un paesaggio incredibile: la foschia dei tropici avvolge le fronde di alberi altissimi, a perdita d’occhio.
Questa zona è un parco protetto e per fortuna resterà così, sono state già scongiurate buona parte delle pericolose speculazioni commerciali che hanno distrutto le adiacenti foreste thailandesi. Speriamo resistano ancora e valorizzino il turismo ecologico, perché attualmente il parco non è ancora attrezzato in questo senso. Il tratto finale della strada che porta a Koh Kong coincide con il Conservation Corridor, un luogo di transito dell’elefante indiano che però, purtroppo, non riusciamo a vedere 😉
Dopo una discesa da brividi si arriva al mare, ed è proprio lì che si trova il nostro hotel, il Koh Kong Bay, siamo a 10 chilometri dal confine tra Cambogia-Thailandia. Qui il turismo sta cominciando ad affacciarsi ma andare adesso sa ancora di avventura, difatti gli occidentali sono pochissimi. Facciamo un giro di perlustrazione e ci rendiamo conto di quanto piccola sia la città quando, chiedendo a un poliziotto un’informazione per raggiungere il centro, ci ha risposto che non capiva l’inglese ma che avrebbe soddisfatto la nostra richiesta. Quindi si è allontanato, è entrato in un locale dove celebravano un matrimonio ed è uscito con sottobraccio… lo sposo! 😀
Abbiamo scambiato congratulazioni e auguri e, anche lui in un inglese stentato, ci ha dato l’informazione richiesta, poi l’abbiamo lasciato ai suoi festeggiamenti non senza aver scattato delle foto alla coppietta di sposi, vestiti in maniera fantastica. Lui sembrava il domatore di un circo ma lei era davvero bellissima.
Questo episodio finora è emblematico delle sensazioni che ho ricevuto dai cambogiani: ti ascoltano, se possono ti aiutano e se non possono cercano qualcuno che possa farlo. E sorridono. Sorridono, salutano con il loro inchino cerimonioso e tu non puoi far finta di nulla: diventi come loro. Ti adegui ad un approccio verso gli sconosciuti, un modo di fare che ti migliora, che ti fa sentire più educato, gentile, rispettoso, anche sei hai già delle basi solide.
Dopo torniamo in hotel per cenare sul ristorante palafitta e mangiamo gamberi fritti, scampi fritti e immersi in una zuppa, un amok di pesce e un altro pesce locale cotto con mango. Tutto molto saporito, speziato al punto giusto, a confermare la grande fantasia e bontà della cucina khmer, alla faccia di chi pensa che qua si mangiano solo rane e scarafaggi. Quelli ci sono, in strada, ma i ristoranti offrono una varietà di cibo etnico che supera i luoghi comuni esotici e ti fa sedere a tavola con le stesse aspettative che vengono riservate a una nuova scoperta da compiersi.

07/03 Koh Kong (fiume e cascate Tatai)

Al mattino Koh Kong si rivela diversa dall’impatto buio vissuto al momento dell’arrivo. Il sole splende sul giardino tropicale e il panorama dalla stanza con vista mare è bellissimo, scendiamo a fare una colazione meno consistente delle precedenti e notiamo che l’hotel, per quanto sia piccolo e con poche stanze, ha moltissimo personale. Sono tutti giovani, tutti disponibili, tutti attenti, tutti laboriosi, impegnati a fare qualcosa, spesso male, e soprattutto parlano pochissimo l’inglese. Ma non è una sensazione fastidiosa, anzi, ha un sapore genuino: non sono ancora smaliziati, cercano di accogliere i turisti nel migliore dei modi ma mancano di esperienza e quindi appaiono impacciati nelle divise e nei gesti richiesti. Spero si conservino così a lungo, perché sono più veri, sono se stessi. E vanno rispettati, perché l’impegno non manca.
Una volta preparato lo zaino si procede con la prima escursione faidaté: viaggio in tuk tuk fino al ponte sul fiume Tatai (45 minuti per 25 km tra le montagne, prezzo 10 dollari a/r), da lì imbarchiamo su una longboat di quelle che si vedono nei film sul Vietnam e risaliamo il fiume attraverso la giungla per almeno trenta minuti (16 dollari a/r). Il sole è a picco, la luce e i colori sono indescrivibili, siamo circondati da vita e tanto tanto verde. Ci sono alberi enormi, altissimi, completamente avvolti da rampicanti e bambù, non ci sono insediamenti umani e considerate le nostre abitudini ciò sembra impossibile nell’anno del signore 2013. Eppure…
Superata un’ansa, di fronte a noi compaiono le cascate Tatai. Siamo nella stagione secca, non sono particolarmente ricche d’acqua e quindi le rocce imponenti sono così emerse che sembrano delle gigantesche balene spiaggiate. Di colore nero, o rosso, sono porose e quasi del tutto accessibili. Proprio salendo su questi massi enormi si arriva alle rapide e alle pozze d’acqua, caldissima. Sì, l’acqua è calda e bagnarsi sotto il flusso della cascata è rigenerante. Non c’è neppure una persona sul posto, finché non arriva dopo una mezz’ora un gruppo organizzato di visitatori locali che si cambiano e iniziano a bagnarsi insieme ai bambini. I piccoli si divertono con l’acqua, gli adulti si divertono a guardare gli strani costumi degli unici due occidentali presenti, bianchi come latticini. Si confrontano i colori dei piedi, si scambiano inchini, ci si saluta senza capirci se non tramite gesti, e poi torniamo dal nostro barcaiolo.
Sulla strada del ritorno non ci sono foto da fare e ci godiamo il paesaggio, davvero unico. 5 ore dopo la partenza rientriamo in hotel e ci rilassiamo in piscina davanti a uno spettacolare tramonto, almeno finché non si scatena un improvviso temporale tropicale, violento e rapido. Rapido perché dopo 10 minuti i tempo è tornato bello come prima. Per cena andiamo al Cafè Laurent (CHIUSO, agg 01/20), sul lungofiume, dove fanno cucina thai e i tavoli sono anche qui su palafitte molto ben decorate. Mangiamo fried rice con nems (Chiang May style), dove “nems” sta per una salsiccia sbriciolata piccantissima, e fried beef in salsa agrodolce. Spendiamo 15.50 dollari e al fresco della notte programmiamo le escursioni per il giorno successivo. Ma le cascaate Tatai hanno già conquistato un posto nei nostri ricordi…

08/03 Koh Kong (Mangrove Forest e spiaggia Koh Yor)

Ore 12:00. Appuntamento con San e il suo tuk tuk per procedere con le due escursioni programmate nella giornata: Mangrove Forest e spiaggia di Koh Yor, la più bella di Koh Kong (15 dollari a/r).
Ormai è inutile aggiungere ogni volta che attraversare le campagne, le lagune, i villaggi, le strade sterrate cambogiane è già di per sé un viaggio, perché ogni volta vedi cose nuove che ti meravigliano, che vorresti fotografare e raccontare. Ma come si fa a descrivere il profumo delle montagne? Oppure suoni che non hai mai sentito prima? Quindi, tanto vale arrivare a destinazione con il reportage e procedere con il racconto, in questo caso la foresta di mangrovie all’interno del Peam Krasaop Wildlife Sanctuary.
Questo parco è uno dei pochi “attrezzati” per l’accoglienza di ospiti. E per “attrezzati” si intende che c’è un ingresso, delle aree per fermarsi a fare un picnic e la struttura necessaria per dare senso alla visita. Tra poco saprete perché questa struttura è “necessaria”.
Non vi aspettate guide da trekking, mappe, centro informazioni, rifugi o altro… anzi, anche alla biglietteria non parlano inglese. L’ingresso costa 5000 riel (1.25 dollari circa) e una volta all’interno si procede su una passerella in cemento lunga oltre 600 metri, la struttura necessaria 🙂
La pedana si inoltra in una fitta foresta di mangrovie, un habitat aspro nonostante l’acqua, che sembra immobile, paludosa, ma che è piena di vita. Durante il percorso avvistiamo pesci e un “lucertolone” che per dimensioni e forma sembra un piccolo coccodrillo. Il caldo e l’umidità si fanno sentire man mano che si entra nel groviglio sempre più fitto di radici emerse. La passerella non ha corrimano né protezioni e quando si incrociano altre persone si sta attenti a non creare ostacoli, la caduta in acqua (o sui legni taglienti) è sempre in agguato.
A un certo punto si giunge su un isolotto e da qui parte un ponte in corda e legno. Non è propriamente un “tibetano”, visti gli assi in legno, ma le oscillazioni ci sono eccome! Il ponte porta sull’altra sponda del fiume dove c’è una torre di avvistamento alta 15 metri. Una volta in cima ci si rende meglio conto della propria posizione: a perdita d’occhio si distinguono solo verde e acqua, acqua e verde. Un vero e proprio ecosistema da proteggere e conservare, speriamo ci riescano. Qualche dubbio m’è venuto quando ho sentito provenire dall’interno della selva rumori tipici di una segheria, cioè, ho pensato: “Installare una segheria in una foresta è come far pascolare le mucche in un mattatoio!” 🙂
Da notare anche in questo caso che eravamo gli unici turisti occidentali sul posto, a conferma del fatto che la Cambogia, e queste zone in particolare, non sono state ancora attaccate dal turismo di massa, dai tour operator e dai villaggi turistici fatti di macarena ed escursioni guidate con cestino-pranzo-all-inclusive 😉
Finita la visita procediamo verso il relax, attraversiamo finalmente il ponte a 100 metri dal nostro hotel che collega le due sponde della baia di Koh Kong, e ci dirigiamo verso la spiaggia di Koh Yor. Ci fermiamo nei pressi di Crab Shack, un capannino che prepara pasti a base di pesce in riva al mare, e fissiamo il campo-base vicino un’amaca: esattamente ciò che ti aspetti su una spiaggia bianca lunga un paio di chilometri che conta al massimo una decina di persone in tutta la sua lunghezza! La sabbia è bianca ma il mare non è proprio bellissimo, molto caldo ma un po’ torbido. Non solo, è anche un po’ agitato e se non si conosce bene il fondo e le correnti è meglio non fare gli splendidi.
Ci accorgiamo subito che c’è poco da scherzare quando il fondo, man mano che ci si allontana dalla riva, “cede” letteralmente sotto il peso del proprio corpo. Camminando sulla sabbia morbida la mia gamba è affondata fino al ginocchio in un attimo, così sono tornato sui miei passi e ho provato a simulare un affondamento “consapevole”, cioè in una condizione di sicurezza: la sabbia avrebbe continuato a perdere consistenza, e la gamba a immergersi, creando un effetto del tutto simile a quello delle sabbie mobili. Meglio proseguire lungo la riva va’…
La passeggiata è gradevole, il cammino è costellato di una miriade di conchiglie di ogni genere e centinaia di paguri sfrecciano e si infilano rapidi da una tana all’altra. In sintesi: la visita alla spiaggia vale, il mare un po’ meno.
Al rientro in hotel mangiamo uno snack a base di pollo fritto (4 dollari), assistiamo al tramonto e poi prendiamo un tuk tuk per andare in “centro” e cercare un altro ristorante indicato dalla guida. Prima però ci fermiamo in un piccolo market dove a forza di gesti e mimica degli animali (maiale, gallina, pesce, manzo…) riusciamo a comprare una serie di preparati locali per condire i noodle. Finita la spesa scopriamo che il Baan Peakmai, definito il “miglior ristorante thailandese della città” è chiuso da tempo. Bene. Si passa al piano B. Il piano B consiste nella ricerca di un altro ristorante selezionato dalla medesima guida, il Dive Inn, un po’ fuori mano rispetto agli altri ma ormai abbiamo lasciato il tuk tuk libero e decidiamo di proseguire a piedi.
La Cambogia ci ha sempre trasmesso tranquillità e sicurezza, cosa che non riesce a darci del tutto una lunga strada che dobbiamo attraversare per tornare sulla costa: un percorso completamente buio che ospita solo qualche capanna e i suoi abitanti che guardano la televisione restando al fresco dell’esterno, e qualche cane che non risparmia il suo abbaiare. Finalmente torniamo in una zona illuminata e riconosciamo il luogo in cui ci troviamo, quindi proseguiamo la ricerca del locale allontanandoci sempre di più dall’hotel, finché… finché non rinunciamo! Il locale proprio non si trova, così quando il caso mette di nuovo sulla nostra strada proprio lo stesso tuk tuk che ci aveva portato in centro più di un’ora prima, non esitiamo a fermarlo. È lui ad informarci che il Dive Inn è chiuso da oltre un anno, ma questo sulla guida non c’era scritto. Allora si passa al piano C, dove la “C” sta per Cafè Laurent, un ristorante che già conosciamo e che si conferma ottimo anche al secondo, improvvisato appuntamento: stavolta mangiamo fried rice Yangh Zouh (riso con maiale, seppie e scampi condito con un mix di spezie e erbe), e fried spicy squid (seppioline condite con una salsa agrodolce, arricchita di peperoni, cipolle e tanta tanta menta). Il terzo giorno a Koh Kong si conclude e lascia un alone di mistero sul programma previsto per l’indomani…

09/03 Koh Kong (Srok Mondol Seyma)

Koh Kong è un luogo di confine, un posto di frontiera, a pochi chilometri dalla Thailandia. E si sa, se i governi non sono impegnati in conflitti (cosa che negli anni Cambogia e Thailandia non si sono fatti mancare), le zone d’ombra sono terreno di colture per contrabbando, prostituzione e ogni altro genere di malaffare. Ma Koh Kong sta cambiando, e cosa hanno pensato di fare per non perdere un “certo” volume di affari? A pochi metri dal confine, nella località Srok Mondol
Seyma, hanno aperto un gigantesco resort con annesso casinò. E poco più in là c’è anche una sorta di zoo safari con spettacoli di delfini e altri animali, per la gioia dei turisti.
Cosa c’entra tutto ciò con il programma della giornata? Apparentemente niente, perché non siamo giocatori d’azzardo e, soprattutto, perché non intendiamo vedere un uomo sano di mente infilare la testa nelle fauci di un caimano. Quindi, se si esclude il parco e il casinò, cosa resta? Resta il resort, enorme e aperto a tutti, che per la cifra di 3 dollari permette di accedere a una gigantesca piscina (incluso telo, lettini, ombrelloni e docce) e alla spiaggia privata. Quindi chiediamo a un tuk tuk di accompagnarci al confine per la cifra di 10 dollari a/r e di tornarci a prendere dopo due ore.
Ora, i tre dollari per accedere alla piscina del resort si pagano se qualcuno te li chiede, ma siccome entriamo senza che nessuno ci degni di uno sguardo, procediamo diretti verso il mare e dopo un’oretta in spiaggia ci spostiamo verso la comodità della piscina. All’orario stabilito torno in strada e avviso il nostro autista che intendiamo restare un altro paio di ore. Aumentiamo il compenso a 15 dollari e continuiamo il relax per un motivo semplice: nelle due ore trascorse non c’era una sola persona né in piscina né in spiaggia! Tutti ma proprio tutti erano nel casinò e me ne accorgo solo quando, rientrando, mi fermo al bar a prendere degli snack. Lo splendido giardino tropicale del resort (la struttura è una cafonata e non c’entra niente col paesaggio. Ci sono forti richiami alle architetture neo-classiche europee, oppure, se vogliamo, si presenta come una sorta di Bellagio de noantri) era così vuoto, la spiaggia e la piscina così isolate, che prima di immergerci, timorosi, abbiamo pensato addirittura che fosse fuori servizio. Non c’era neppure personale dell’hotel, niente! Ma dentro il casinò erano concentrate tutte le attenzioni possibili per gli ospiti. Perché lì girano i soldi, quelli veri, quindi i famosi tre dollari sono rimasti nelle nostre tasche fino a che non siamo andati via. E uscendo il personale della conciergerie ci ha anche aperto la porta e detto: “See you tomorrow”. Certo, come no…
L’indomani si parte ancora, si rientra a Phnom Penh, ma devo dire che l’ultimo giorno di relax a Koh Kong è stato sorprendente e ci ha fatto apprezzare un aspetto nuovo di questo posto di frontiera, che si può considerare ancora “selvaggio”. Un aspetto meno ingenuo e rurale, più simile a quello di tante attività simili che conosciamo in occidente. Prima di rientrare in albergo andiamo a comprare qualche spezia presso lo shop della guesthouse Bluemoon e poi ci facciamo lasciare nei pressi del mercato centrale. Il giro in un mercato ti fa rendere conto meglio di come vivono le persone, che usanze hanno, cosa vendono e cosa comprano per sussistere.
Il mercato serale di Koh Kong rivela anche molto altro perché all’interno c’è di tutto, dal parrucchiere per donna, all’abbigliamento, alla carne o al pesce. Ora, finché si parla di frutta e verdura, è piacevole vedere colori e forme sconosciute, sentire profumi diversi dai soliti. Ma se si passa alla carne e al pesce, forse è meglio non sapere. Tutto qui viene esposto in condizioni igieniche improponibili per i nostri standard: ci sono mosche, c’è fango, c’è sporcizia, c’è poca acqua e quella che c’è è putrida. Non ci sono frigoriferi né ghiaccio, qualcuno taglia teste, macella pesce e carne, qualcun altro cucina o mangia, l’odore è nauseabondo. C’è anche la fogna rotta, l’impatto è duro ma se avete uno stomaco abbastanza forte, una visita a questo mercato è da fare. Finalmente abbiamo visto i famosi insetti cambogiani da spizzicare come spuntino, oppure i granchi blu.
Sulla strada del ritorno in hotel, è arrivata anche l’ennesima esperienza/sorpresa cambogiana. Abbiamo percorso la stessa strada che la notte prima era buia e deserta, solo che stavolta era praticamente “bloccata” da un tendone e delle sedie piantate sull’asfalto, tutto decorato con colori accesi in diverse tonalità di rosa e il classico, pacchiano cuore che funge da portale d’ingresso per gli ospiti, un portale che ormai conosciamo bene (avremmo visto questa scena almeno quindici volte nei giorni scorsi) e che anche stavolta non manchiamo di avvicinare: c’è un matrimonio. Ma stavolta succede qualcosa di diverso, la madre dello sposo ci prende per un braccio e ci invita a entrare per mostrare orgogliosa cosa hanno preparato: la cerimonia è il giorno successivo, ora è solo un rinfresco, con la musica dal vivo, i parenti che mangiano e i neo-sposi vestiti normalmente che si preparano al grande giorno. Ci togliamo le scarpe per entrare in una catapecchia addobbata con tanti tappeti, e ci invitano a scattare le foto con gli sposi. Questo episodio fa capire che qui i turisti sono una sorta di attrazione, specie se arrivano dall’altra parte del mondo. Quando pronunciano la parola Italy, la madre dello sposo non ci pensa su due volte: ci invita alle nozze! Vuole a tutti i costi la nostra partecipazione ma, purtroppo, per il giorno dopo abbiamo in programma di ripartire. Peccato, sarebbe stata una bella esperienza da provare.
Allora ci chiedono di rimanere almeno a cena ma siamo ancora in costume, siamo stanchi e accaldati e ci aspetta una bella doccia e il Cafè Laurent. Preferiamo andar via, gli sposi è giusto che godano i loro momenti indimenticabili circondati dall’affetto dei loro cari, e senza ospiti ingombranti che potrebbero “rubare” la scena. Auguri e figli cambogiani! 😉

10/03 Koh Kong – Phnom Penh

Ore 10:00, partenza da Koh Kong. Un paio di giorni prima abbiamo trovato un’auto privata che per 60 dollari ci accompagnerà a Phnom Penh.
Sarà il nostro ultimo spostamento lungo, quindi ne approfitto per dare alcune informazioni sui collegamenti in Cambogia. Allora, escluse le ferrovie, si possono raggiungere le principali località in macchina privata, in moto, con minibus o con pullman. La spesa varia in funzione del tempo che si intende impiegare sulle strade cambogiane e dal comfort che si desidera per il proprio viaggio. Noi abbiamo scelto sempre l’auto privata, così siamo stati più indipendenti, comodi e abbiamo guadagnato molte ore rispetto ai mezzi più lenti. In totale gli spostamenti sono stati 4 per una spesa totale di 250 dollari, ogni tratta ha richiesto 4 ore e mezza di macchina rispetto alle 6/7 previste con il pullman. L’autobus sarebbe stato più economico, circa il 50% in meno, ma viste le strade e il tempo a disposizione siamo convinti di aver fatto la scelta migliore.
Ormai la strada che porta a Phnom Penh la conosciamo bene, quindi aspettiamo di arrivare direttamente nella capitale per vederla alla luce del sole. Il giorno in cui arrivammo era notte, c’erano pochissime luci e anche l’hotel era al buio ma di giorno… di giorno Phnom Penh è tutta  un’altra cosa! Tantissime persone, auto, moto, tuk tuk, tutti indaffarati a muoversi, lavorare, cucinare e mangiare. Sì, perché i cambogiani a quanto pare non solo mangiano qualsiasi cosa, ma la mangiano ovunque e a qualsiasi ora! In strada si vedono bancarelle che vendono ogni genere di alimento o bevanda, e a voler essere onesti anche qui tutti questi insetti, ragni e larve non è che ne abbiamo visti. Un paio al massimo, poca cosa rispetto alle aspettative e ai racconti di altri viaggiatori.
Una volta in hotel riceviamo la piacevole sorpresa di un upgrade della camera, per cui ci ritroviamo in una deluxe matrimoniale con balcone privato sulla piscina. Usciamo per andare a fare shopping al mercato russo e compriamo qualche souvenir, però scappiamo abbastanza in fretta perché all’interno c’è un caldo tremendo e un odore nauseabondo. Purtroppo non ci sono buone condizioni igieniche e si avvicina l’ora di chiusura (alle 17:00 chiudono quasi tutti in città, e i ristoranti alle 21 o 22), quindi c’è molta confusione e si avverte una certa insofferenza verso gli ultimi arrivati.
Poco male, andiamo via con il tuk tuk che per 6 dollari ci ha accompagnato e ci fermiamo in un paio di negozi sulla 240 Street (la strada dello shopping). Rientrati in hotel ci rilassiamo un paio di ore in piscina e scegliamo di cenare da Frizz, un locale consigliato dalla guida per la qualità del cibo e l’ambiente, che peraltro è vicino al nostro hotel. Così tanto che lo raggiungiamo a piedi, nonostante la città non si presti a fare passeggiate per due semplici motivi: uno, non ci sono molti marciapiedi e, due, quei pochi che ci sono solitamente sono invasi da venditori, espositori di negozi o macchine parcheggiate. E poi l’aria non è che sia poi così salubre…
Insomma, raggiungiamo il Frizz e abbiamo la conferma che le guide sono un po’ come la TV: non sempre devi fidarti di ciò che vedi/leggi. La cena non è granché, anzi, rispetto a tutte le altre è la peggiore. Spendiamo 15 dollari per mangiare degli involtini primavera ripieni di maiale, Bai Chhar Sach Moan (fried rice, with carrot, green beans, turmeric), e Kari Sach Ko (beef curry with coconut milk, sweet potato, lemon grass, garlic, galangal and kaffir limes and leaves). L’aspetto dell’ultimo piatto non era il massimo, sembrava di ravanare in una latrina. Al termine rientriamo in albergo e organizziamo le escursioni del giorno dopo, l’ultimo in Cambogia.

11/03 Phnom Penh (Tuol Sleng, central market, palazzo reale, pagoda d’argento)

L’ultimo giorno in Cambogia coincide con le visite ai maggiori siti turistici della città. Considerati gli orari un po’ anomali del Palazzo Reale (al mattino chiude alle 11 e riapre alle 14), verso le 12 usciamo e visitiamo prima la prigione di Tuol Sleng, un ex-liceo che durante la dittatura comunista di Pol Pot è stato teatro di torture ed esecuzioni sommarie. La visita suscita sdegno e impressiona vedere sul posto due sopravvissuti che sono lì a raccontare e a vendere i propri libri. I khmer rossi hanno commesso massacri in maniera scientifica, con modalità che ricordano le ossessioni naziste per le statistiche collegate agli stermini di massa di cui si sono resi colpevoli. Nelle varie stanze si vedono fotografie di persone torturate e uccise, e ci sono anche gli strumenti usati dai carnefici. La visita termina con un ossario dove sono stati raccolti scheletri di vittime a cui non si è riusciti a dare un nome. Nei crani sono visibili i fori di entrata e uscita dei colpi di grazia esplosi durante sommarie esecuzioni capitali. C’è da riflettere su tutta questa violenza, espressa in soli 4 anni in un Paese buddhista al 98%: com’è potuto succedere? Come è stato possibile annullare la fantasia, la gioia di vivere, la personalità degli individui, in nome di una dottrina politica (peraltro applicata male e con risultati economici catastrofici)? Ciò è accaduto solo 30 anni fa e nonostante tutto i cambogiani sembrano aver perdonato, sembra siano riusciti a guardare avanti e a lasciarsi alle spalle gli anni del terrore. Senza dimenticarli. Quella sì, sarebbe una follia.
Appena fuori dal liceo-lager siamo di nuovo nel pieno del movimento cittadino e ci avviamo verso il Central Market. Reso celebre dalla sua cupola, ospita ogni genere di commercio e lo abbiamo trovato perfetto per gli acquisti. Consiglio: se la vostra vacanza in Cambogia termina a Phnom Penh, fate qui tutti i vostri acquisti. Anche quelli che riguardano la visita a Siem Reap e Angkor Wat. Nel mercato centrale troverete tutto, lo pagherete meno ed eviterete di viaggiare con il carico di souvenir. Noi a Siem Reap abbiamo fatto spese e ci siamo resi conto che avremmo potuto acquistare le stesse cose nel mercato di Phnom Penh.
Una volta dichiarato concluso il rituale shopping per il souvenir dell’ultimo minuto, raggiungiamo il fiore all’occhiello della città: il Palazzo Reale e la Pagoda d’Argento. L’ingresso costa 6.50 dollari e permette l’accesso a entrambi i siti.
Che dire, i giardini sono bellissimi, l’atmosfera silenziosa e rilassante, le strutture (che sono recenti, in quanto risalgono alla metà dell’800 e agli inizi del ‘900) finemente lavorate e ricche di decori. L’insieme offre un ottimo impatto visivo all’esterno ma niente di eccezionale in confronto alle moli ciclopiche dei palazzi reali europei. Gli interni, invece, deludono perché sono poco curati.
Il re vive in questo complesso e, a voler essere onesti, è abbastanza frustrante vedere esposte portantine d’oro, statue di Buddha tempestate di diamanti e un pavimento d’argento fatto con 5000 piastrelle ognuna del peso di un chilo, mentre fuori il popolo non se la passa granché bene. Non so, a me l’esibizione dei tesori e dei regali ricevuti dai capi di stato esteri, non ha fatto impazzire. Se a questo ci aggiungiamo che in più il buon re si fa pagare anche un biglietto d’ingresso per visitare le sue cose, e che questi ambienti non sono neppure troppo curati… Ah! I controsensi delle monarchie.
Nonostante queste osservazioni critiche, un giro vale la pena farlo e quindi sparpaglio anche qualche consiglio per la visita:

– Andate vestiti in maniera consona se non volete evitare di dover affittare indumenti che coprano gambe e spalle.
– Raggiungete il retro del palazzo reale per vedere una colonia di macachi giocare e accettare spuntini offerti dai turisti (occhio alle borse!)
– Visitate lo stupa con una reliquia di Buddha e alle sue spalle troverete anche una enorme riproduzione in miniatura di Angkor Wat (con tanto di fossato, acqua, pesci e tartarughe… veri!).

Sono le 17, adesso i giri sono davvero finiti e non resta che concludere la giornata e prepararsi al rientro in Italia. L’hotel ci ha fornito spogliatoio, docce e piscina fino al momento della partenza, quindi ne approfittiamo per un ultimo tuffo e poi, dopo aver preparato tutto, siamo pronti per l’ultima cena cambogiana. Scegliamo il ristorante dell’hotel per mangiare spiedini di pollo con salsa alle arachidi, scampi con tamarindo e una tenderloin di manzo su un letto di cipolle e pepe nero (25 dollari). Fantastica. Una cena fantastica che rappresenta una conclusione degna per un viaggio fantastico.
La Cambogia ti resta dentro, ti resta addosso, è un luogo da visitare con profonda compassione e rispetto. Perché anche lì, tra chi ha molto di meno di noi, abbiamo tante più cose da imparare. E da scoprire.

Note
Durante il viaggio la guida di riferimento è stata una Lonely Planet.
Gli appunti e le fotografie sono stati assemblati facilmente grazie all’applicazione Trip Journal.
Gli hotel sono stati tutti prenotati su Booking.
Tutti conti degli hotel sono stati pagati con una banale PostePay ricaricata dell’importo necessario per i soggiorni.
I libri letti con il pratico Kindle sono stati Igor D’Arabia di Igor Man e Marcello Sorgi, Buddha di Leonardo Vittorio Arena e La scopa del sistema di E.F. Wallace.
Uno speciale ringraziamento va al mio amico, e grande viaggiatore, Paki.
Dopo aver visto le sue foto scattate in Cambogia ho deciso di partire per questa destinazione, e una volta sul posto ho trovato alcune sue “dritte” più importanti di quelle trovate sulla Lonely.
Spero che questo diario possa ottenere lo stesso effetto: stimolare e aiutare altri viaggiatori 😉